lunedì 3 luglio 2017

Dora Zuccolotto - Solo una fotografia

Corrisposi per ben due anni con un amico dello zio Ignazio, entrambi emigrati in Australia prima della seconda guerra mondiale e, a parte lo scambio delle nostre fotografie, le poche righe che ci scrivevamo erano saluti, auguri per le feste di natale e piccole descrizioni del lavoro nei campi molto duro ma ben retribuito.


Un giorno ricevetti un’insolita sua lettera da far leggere ai miei genitori.
Con molta diplomazia chiedeva il loro permesso affinché io lo potessi raggiungere dichiarando che da tempo nutriva, nei miei confronti, un forte sentimento d’amore e con sincera lealtà il permesso per un eventuale matrimonio.
E si! Mi voleva proprio maritare.
In casa ci furono dei contrasti tra mia madre e mio padre, io ero l’ultima di sei figli e dopo i bombardamenti nel mio paese il cibo ed il lavoro scarseggiavano.
Mi convinsero che la passione verso gli animali e la terra che nutrivo, mi avrebbe reso più facile la vita in Australia dove le distese di campi erano assai vaste ed un eventuale matrimonio poteva solo giovare al mio futuro.
Spedimmo la lettera   con il consenso alle richieste, e che la mia partenza era prevista per metà aprile.
Che dire, la decisione era stata presa!
Mi autoconvinsi del lungo viaggio da intraprendere ma soprattutto del fatto che avrei conosciuto solo li l’uomo che avrei sposato.
 Non era facile lasciare le mie compaesane, lasciare i miei fratelli, i miei genitori di età ormai avanzata, ma soprattutto Gina, la mia amica del cuore con la quale sognavamo di condividere insieme lavori, divertimenti e balli.
Sognavo l’arrivo della lettera quasi ogni notte.
Sognavo di danzare vestita di bianco come la ballerina del mio carillon che tenevo con molta cura nel mio comodino e, che la sera la sua dolce e melodica musica mi teneva compagnia.
Sognavo l’ebrezza del primo bacio, sognavo, sognavo.
Il giorno arrivò.
Tremante con il respiro corto aprii la lettera.
Una lacrima mi scese in viso quando lessi che con impazienza aspettava il mio arrivo e gioiva nel diventare mio sposo.
Con molta fatica facemmo il biglietto per arrivare a Genova dove da lì mi sarei imbarcata.
Il 17 aprile 1947 partii per il porto di Melbourne, avevo solo diciannove anni, avevo paura.
Salendo in nave mi resi conto che c’erano tante persone, famiglie con bambini piccoli, uomini e donne anch’essi solitari, come me, ognuno con un proprio sogno da realizzare. Chi viaggiava per raggiungere parenti, chi per lavoro, chi per cercar fortuna iniziando dal barattare le poche cose ben custodite nelle umili valigette di cartone che tenevano vicine ben strette, con un pasto caldo o un tetto per cui alloggiare.
Il viaggio fu lungo e assai faticoso, nella mia mente a volte passavano pensieri tristi, ma guardando il quieto ondulare dell’acqua se ne andavano.
Guardando il fumo e le scintille uscire dal camino della nave, immaginavo il duro lavoro degli uomini sotto in caldaia per farci arrivare al più presto a destinazione.
Dopo trentun giorni finalmente da lontano si vide la costa ed il bisbiglio dell’arrivo risuonò in tutta la nave.
Il cuore batteva forte, non capivo se era emozione per l’incontro o paura di entrare in una realtà totalmente diversa dal mio paesino veneto.
La nave attraccò al porto, presi i bagagli e scesi una lunga passerella di legno cigolante, ogni passo mi rimbombava nel cuore.
Diedi l’ultimo sguardo all’indietro in segno di ringraziamento per essere arrivata e mandai col pensiero un bacio alla mia famiglia, uno più grande a mia madre.
Tremante cercavo tra la gente del porto quell’uomo che nella foto un po’ sbiadita tenevo in mano.
I nostri sguardi da lontano si incrociarono.
Ero minuta, le lentiggini al naso, un capottino grigio e tra i capelli un fiocco rosso, chissà se gli sarei piaciuta. Subito di lui mi colpirono i capelli neri come la pece, ondulati e quegli occhi penetranti che ancor oggi sogno la notte.
Con vergogna ci salutammo, la sua voce dolce, pacata mi diede subito sicurezza e mi avvolse di serenità.
Il mio destinato sogno diventò realtà, ci sposammo.
Ero vestita di bianco e portavo delle scarpe col tacco, con i laccetti davanti, come le scarpette della ballerina del mio amato carillon.
Furono anni difficili, periodi di semplicità e reciproca onestà cullarono il nostro amore e, tutto quello che con il tempo avemmo costruito mi permisero in cuor mio di ringraziare i miei genitori per la scelta fattami in giovane e immatura età, che all’epoca ritenevo sbagliata.
Ancor oggi quando mi guardo allo specchio rivedo riflesso nei miei occhi quella grande nave, mia madre asciugarsi le lacrime con le sue minute mani e, gli imponenti baffi folti e grigi di mio padre che con il sol cenno della mano mi diede l’ultimo saluto.
Proprio così l’ultimo addio perché non feci più ritorno in Italia.
Per corrispondenza iniziò questo lungo viaggio, e per corrispondenza io li salutai per sempre.
A proposito io mi chiamo Clara ed il mio vero ed unico amore Mario.



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