lunedì 26 marzo 2018

Flavio Provini - Il viaggio che mi manca

- in rima alternata -

Come vorrei trovarmi dentro
una nuvola carica di grandine,
fuggir lontano e far rientro
in una favola, volare a rondine

nella mano calda del sole,
le ali tese a un qualche dio
fra onde arrese a verdi isole,
verso un porto che sia mio.

A terra ho perduto lo stupore
del bambino che carezza il mare,
ho profanato piume di candore
del gabbiano che osa sfidare

l’obliqua brezza dell’infinito.
Chissà se domani un vento nuovo
mi smuoverà a vascello ardito,
mi darà una fuga e un ritrovo

infranti i muri delle paure
di Nessuno, dei Ciclopi senz’occhi,
delle maghe dalle strane fatture
da quattro soldi e dai mille tarocchi.

Mi manca e quanto mi manca
il viaggio burrascoso della mente
oltre la comoda zona franca
di un cuore a riposo troppo silente

e mi mancano tutte le emozioni
che colorino a tinte naturali
la mia pelle, i ricami delle illusioni,
lo strappo dei temporali

sulla quiete che mi veste male
come una giacca fuori moda,
or che attendo un segnale
prima che la bufera esploda.

Flavio Provini - Quel mondo che non c'è più

- in rima alternata -

Mi manca il fruscio dell’erba fresca,
la corsa dietro uno spago d’aquilone,
il bacio d’aria sulla pelle fior di pesca,
quel fremito del cuore a un'emozione.
Mi manca la carezza dopo la sberla,
la certezza che asciuga ogni lacrima,
la nonna, il girocollo di madreperla,
il suo cucchiaio d’ironia o di paprica.
Mi manca il Subbuteo e il nascondino,
la focaccia genovese fuori dal forno,
il flipper, l’Atari, il Billy e Sbirulino,
il ciuffo ribelle, le ragazzine intorno.
Mi manca non poco anche la scuola,
la prof carina d'educazione artistica,
la firma falsa, il grido a squarciagola
al gol vincente nell'ora di ginnastica.
Mi manca il dubbio prima dell'esame,
la fila alla cabina, il mangiacassette,
la tombola, l’uscita a pane e salame,
l’urlo di mamma: “alzati, son le sette!"
E mi manca quello sguardo al miele,
il seno florido, quel fare tuo sincero
il cuore a viver il tempo delle mele,
a convincermi che fosse amore vero.
Mi manca il tattoo sull'avambraccio,
la sbronza degli amici a fine lavoro
e quella notte zingara all'addiaccio
sotto una luna che mi pareva d'oro.
Mi manca il figlio che non ho avuto,
il mio labrador che riporta il ramo,
le chiavi del tempo che ho perduto
e ritrovo solo quando ci baciamo.
Mi manca la schiettezza del bambino,
il pianto isterico al gioco che s'è rotto,
si butta o si ripara come un calzino
ché qualcuno rimette tutto a posto.
Mi manca quel mondo che non c'è più,
s’è spento o alberga ancora nel ricordo,
ma Dio mi ritorna lampi da lassù:
lo riavrò, da sognatore non demordo.

mercoledì 7 marzo 2018

Anna Pasquini - Zero figli

Mi chiamo Benedetta ho trentanove anni e ho zero figli. Sì, preferisco dire che ho zero figli piuttosto che dichiararmi senza o iniziare la frase con una negazione: “non ho figli”, perché sia la parola “senza” che la negazione, fanno sembrare che io sia mancante, incompleta. Cosa di cui, badate bene, io non mi sento assolutamente. Eppure sembra che là fuori le persone mi vedano così. E a quanto pare sembra che ormai il mio tempo sia finito. Come se abbia un tagliandino di scadenza proprio dietro la schiena, che vedono tutti tranne me. Prima alle visite mediche di controllo, tra le varie domande mi veniva chiesto: “Ha figli?” tempo verbale: presente, dallo scorso anno un radiologo da cui andai per un’ecografia pelvica, mi ha chiesto “Ha avuto figli?”, dal presente siamo balzati al passato prossimo, così, d'emblée, senza che nemmeno me ne sia resa conto, eh sì che dalle ultime statistiche le mamme over quaranta sono molto più delle under trentacinque, ma tant’è. L’anno scorso, era gennaio, la signora alla Reception di un hotel fronte-mare dove ero andata insieme al mio compagno per festeggiare il mio compleanno, alla domanda: “C’è molta affluenza alla spiaggetta qui di fronte in estate?”, mi son sentita dire: “Per le coppie senza figli come voi forse è più indicata la spiaggia più infondo”. Avrei voluto risponderle “Grazie, peccato che sono incinta!”, così, tanto per contrariarla. Il punto è che non sono contraria all’avere bambini, ma nemmeno sono una di quelle donne che si sentono realizzate solo nell’averne. Sono arrivata a trentacinque anni senza averne avuti, i miei ex non mi hanno messo incinta (e per fortuna, visti i tipi), né nessuno di loro mi ha chiesto di sposarlo o di mettere su famiglia. A trentacinque anni incontro l’uomo meraviglioso con cui sono fidanzata oggi, ci frequentiamo un anno, e in quest’anno facciamo un milione di cose: viaggiamo, andiamo a teatro quasi tutte le sere, conosciamo le nostre interiorità, e andiamo a convivere. Poi mi offrono un’occasione lavorativa importante e di responsabilità, che però mi occupa molto tempo, la cosa mi inorgoglisce e ad ora ringrazio ancora il Cielo o la mia buona stella per le cose meravigliose che mi sono accadute. E questo è quanto. Ecco perché non voglio cedere alle ansie altrui, che mi vogliono mamma prima che sia troppo tardi, i figli non si fanno perché è arrivata l’ora, né si fanno perché e se poi ti penti di non averne avuti? Questa poi…non capisco perché il pentimento debba essere sempre e solo in un senso, e nessuno parli della depressione post partum che nei casi estremi porta ad efferati matricidi. Sono casi estremi di malessere psicologico sicuramente eccessivi, ma mi piacerebbe che si prendessero in esame ambo le possibilità e non una soltanto.

Childfree, ecco come siamo definiti noi senza figli. Ecco come veniamo visti il mio compagno ed io. Il punto è che non lo siamo, o meglio, non so esattamente cosa siamo, non mi piacciono le etichette, le definizioni studiate ad hoc, mi ci trovo stretta, sono una persona troppo colma di cose per poter essere incorniciata in una definizione. Quello che posso dire è che noi ci limitiamo a vivere la nostra vita, senza precluderci nulla, ma i figli ad ora non sono nei nostri progetti, ecco tutto. Se venissero li accoglieremmo, ma non siamo nemmeno lì a spremerci perché arrivino a tutti i costi. Che poi chissà, magari le stesse persone che mi guardano con sospetto perché a trentanove anni ancora non ho un figlio, sarebbero ancora più critici nel sapere che lo aspetto da un uomo molto più grande di me. Perché tanto come agisci, agisci, c’è sempre qualcuno pronto a dare giudizi non richiesti, esporre sentenze. È l’era dei social, quella che ha dato modo a chiunque di dire qualsiasi cosa su qualsivoglia argomento, che come diceva Montanelli ha permesso a una marea di cretini di esprimersi a ruota libera. Ed ecco che ci si ritrova a dover spiegare e giustificarsi, perché alla mia età non avere figli è visto come qualcosa di atipico, che nasconde chissà quali misteriosi motivi, forse tare ereditarie? Insidiose malattie?  E allora giù, pietà negli occhi degli altri, oppure nel caso in cui si confessi di non volerli per scelta, ecco che si passa per dei mostri, come si fa a rinunciare ad una così importante e naturale fase dell’essere umano, la genitorialità? Un paio d’anni fa mi sono sentita dire da un conoscente che a trentasette anni ero troppo vecchia per pensare di diventare mamma, che ormai i giochi erano fatti e dovevo rassegnarmi.

Invece un’altra volta da una Proctologa da cui andai per un controllo, accompagnata come sempre dal mio compagno, questa si sentì in dovere di esprimere il suo parere, ci sentimmo dire che il nostro amore era troppo grande per tenercelo tutto solo per noi, che avremmo dovuto fare un bambino. Proprio così. Aggiunse che lei ebbe la sua prima ed unica bimba a trentanove anni e che il suo unico rammarico era non averne avuto un altro. E chissenefrega? Avrei dovuto dirle. Non ne ebbi la prontezza.  Anche in quella circostanza mi sentii invasa nella mia intimità. Ma la cosa che più mi dispiacque avvenne due anni fa, ad un seminario organizzato dalla mia azienda. Ero con due mie colleghe di poco più grandi di me, una mamma di due bambine e una di un bambino. Assieme a noi c’era una signora che in quell’occasione prestava servizio come hostess per il nostro evento. Era un ex insegnante di Tedesco e parlando del più e del meno ci disse che sua figlia trentenne aveva cinque figli. Cinque! Aggiunse anche che era laureata in Ingegneria e lavorava da alcuni anni in un’azienda. Io confesso che mi chiesi quanti giorni effettivi avesse lavorato una che aveva portato avanti cinque gravidanze, ma lo tenni ovviamente per me. Le mie due colleghe invece sembravano in estasi da quell’informazione, blateravano sulle prodezze di questa che ai loro occhi appariva come una supereroina, come se partorire fosse di per sè un merito, e non una cosa naturale nella vita di una donna che sceglie di viverla, e poi una di loro, quella con un solo bimbo se ne uscì cosi: “Mamma mia, io ne ho solo uno…mi sento inutile”. Era una battuta chiaro, ma l’ha esternata così. Esattamente così. Il fatto che lei avesse partorito un solo bambino, anche se ironicamente, la rendeva “inutile”? Grata al mio Ego per essere ben strutturato, evitai di rispondere o esprimere qualsivoglia commento, ma nei giorni a seguire non ho potuto non riflettere su questa frase. “E’ così che a noi senza figli ci vedono le donne madri? Degli esseri inutili? L’utilità di una persona è data dal quantitativo di bambini che questa mette al mondo, possibilmente tra i due e i tre, grazie? E poi è giusto attribuire alla maternità una qualche utilità? A chi sarebbe utile? Ai bambini? Alle mamme? Non ho ancora trovato una risposta a queste domande. Ma certo non mi sento inutile, né mi sentirei più utile se facessi una valanga di ragazzini. Credo che anzi l’utilità non abbia proprio nulla a che fare con l’essere madre, credo che dare alla luce un bambino sia un reale gesto d’amore e un dato progetto di coppia, che debba nascere dalla volontà di entrambi i componenti della coppia, e dalla loro scelta, libera e incondizionata. Perché avere un figlio per far contento qualcuno, sia esso il proprio marito, la propria moglie, i genitori, i suoceri, la società, non è mai una buona cosa. E poi credo anche che se un domani avrò un figlio, di certo gli insegnerò a rispettare ogni singolo individuo e la sua libertà di essere e compiere scelte autonome.

martedì 6 marzo 2018

Marco Maresca - Un amore secondo la legge

Intenta a ruotare la manopola dell’autoradio per sintonizzarsi sulla sua frequenza preferita, non fece caso all’ambulanza che viaggiava a gran velocità nella direzione opposta. Non si interrogò su cosa stesse succedendo, non provò pena per la persona che in quel momento aveva bisogno di assistenza medica. Il suo cuore non batté all’impazzata come succede a chi teme per la vita di una persona cara, o come accade alle mamme in pena per le uscite serali dei figli. Miriana nella sua vita non aveva, ufficialmente, alcuna persona per cui preoccuparsi.

Seppe della morte di Maurizio un paio di giorni dopo l’episodio dell’ambulanza, quando tornando a casa dal lavoro si fermò dal fruttivendolo e, all’uscita dal negozio, scorse il necrologio affisso al muro di fronte. Le cadde per terra la busta che aveva in mano: fece del suo meglio per chinarsi a raccoglierla con noncuranza, come se il piccolo incidente fosse occorso per semplice sbadataggine, e non per lo shock dovuto a quanto aveva appena letto. Per un attimo aveva sentito un brivido gelido lungo la schiena. Le era mancato il respiro. Ma nessuno l’avrebbe saputo. Non aveva alcun motivo per piangere la morte di una persona che teoricamente non conosceva. Una persona con la quale non aveva legami né vincoli, almeno secondo l’anagrafe.

Il funerale di Maurizio si sarebbe tenuto due giorni dopo, nella più piccola delle chiese della cittadina: non era un uomo conosciuto da molti. Miriana doveva cercare di rimanere lucida: la scelta di partecipare o meno alla funzione andava ponderata con precisione. Al funerale ci sarebbero stati la moglie e i figli di Maurizio e pochi altri parenti, più le solite anziane devote. Miriana non era una parente, e con il suo corpo, i suoi abiti e la sua capigliatura da donna di mezza età non poteva certo passare per una vecchia bigotta. Inoltre non entrava in una chiesa da quasi trent’anni. La sua presenza al funerale con tutta probabilità non sarebbe passata inosservata.

Dopo due notti quasi insonni, Miriana prese la sua decisione. Avrebbe presenziato alla cerimonia, prendendo un permesso dall’ufficio, il primo in quasi vent’anni di lavoro. Di prima mattina telefonò quindi al suo capo, che a seguito della richiesta di permesso non si allarmò: Miriana aveva quarant’anni, a quell’età poteva capitare qualche difficoltà con qualche parente e non era da escludersi qualche lutto improvviso.

L’abito giusto per l’occasione non c’era, il tempo e la serenità necessari per comprarlo nemmeno, poiché era accaduto tutto così rapidamente. Si vestì, quindi, allo stesso modo in cui si sarebbe vestita per un giorno qualunque di lavoro. Jeans neri comodi, poco vistosi. Una camicia bianca con sopra un maglioncino color mattone. Un foulard rosa. Scarpe nere senza tacco. Si truccò in modo leggero e si diede una controllata allo specchio: non andava dalla parrucchiera da un paio di settimane, ma tutto sommato l’acconciatura stava al suo posto, e i pochi capelli bianchi si nascondevano bene. Si spruzzò qualche goccia di profumo e prese dall’attaccapanni il giubbotto che indossava tutti i giorni: nero, imbottito, che le arrivava poco sotto la vita.

Era in leggero anticipo per il funerale, ma non poteva farsi trovare già in chiesa, anche se avrebbe voluto. Avrebbe attirato troppo l’attenzione. Aspettò, quindi, qualche minuto in macchina ed entrò dopo i famigliari e i parenti, insieme ad altre persone a lei sconosciute. Non sapeva bene neanche lei quale impressione volesse trasmettere: poteva essere una vicina di casa, una ex-collega, o semplicemente una persona che passava di lì ed era entrata in chiesa incuriosita dal nome sull’epigrafe.

Il prete non conosceva bene Maurizio, quindi preferì commentare le Scritture senza tentare improbabili collegamenti con la vita del defunto. Si limitò a riconoscere una virtù nella tranquilla e modesta condotta di vita del padre di famiglia ormai scomparso. La moglie e i figli vollero intervenire per dire due parole in più, e Miriana, che osservava la scena da un banco in fondo alla chiesa, non sapeva se il loro intervento fosse previsto o meno. Non aveva mai partecipato ad un funerale in vita sua, e le sembrava diverso rispetto all’idea che si era fatta in merito, derivante principalmente dai film che aveva visto fino a quel momento. Il dolore dei famigliari era molto composto. Le lacrime c’erano, sì, e qualche singhiozzo rompeva il silenzio del luogo di culto, ma Miriana si trovò a pensare che forse tutto ciò non era abbastanza. Che non ci fosse abbastanza sofferenza, abbastanza dolore. Per la prima volta in vita sua si trovò a riflettere su cosa avrebbe fatto se fosse stata lei la moglie. Ma la riflessione durò poco, e la lasciò senza risposte. La mente di Miriana si lasciò trasportare da sensazioni contrastanti e sempre più oscure. Un misto di compassione, rispetto, invidia, gelosia, finché ad un certo punto la razionalità e il necessario distacco che Miriana si era imposta vennero meno. Si accorse che la situazione le stava sfuggendo di mano.

Improvvisamente sentì forti brividi di freddo. Si sentì quasi paralizzata, e pensò che il suo cuore si stesse fermando. Pensava che per farlo ricominciare a battere avrebbe dovuto respirare più velocemente e con più vigore. Iniziò quindi ad inspirare ed espirare con forza, ma l’aria sembrava non volere entrare nei polmoni. Il piccolo santuario nel quale si trovava insieme ad altre persone a celebrare il dolore le sembrò improvvisamente una grande cattedrale. E lei stessa non si sentiva più presente nel proprio corpo, ma le sembrava di far parte del volume d’aria che occupava lo spazio tra le file di banchi, in basso, e la cupola che si vedeva in alto sul soffitto.

Le massicce colonne che sorreggevano la navata centrale sembravano improvvisamente gambe rachitiche non in grado di farsi carico del peso della struttura. Le volte della chiesa le sembravano altissime e Miriana sentiva che entro breve sarebbero crollate sopra le teste dei presenti. Avvertiva su di sé il peso di migliaia di tonnellate di marmo, di mattoni, di lastre di vetro. Immaginava che si schiantassero al suolo gli imponenti candelabri, le statue raffiguranti santi, e per ultime, dopo tutto il resto, a seguito del crollo del campanile, le enormi campane. Si sarebbero riversate al suolo con una caduta di decine di metri, ed avrebbero generato un suono così potente da coprire tutti gli altri rumori, con un’eco che sarebbe durata per parecchi istanti e che poi avrebbe lasciato spazio al silenzio. Un silenzio di morte che di lì a breve avrebbe lasciato spazio a nuovi rumori, a nuovi suoni, a nuova vita.

Il cuore, che poco prima sembrava quasi fermo, iniziò ad accelerare all’impazzata, e Miriana ritrovò coscienza del proprio corpo. Provava una sensazione di terrore, ma il sangue ricominciava a fluire, e il corpo tornava ad essere caldo. Forse fin troppo caldo, ma sempre meglio del gelo che aveva sentito fino a poco prima. Dopo qualche minuto le pulsazioni tornarono alla normalità, il calore diminuì e Miriana ritrovò la sua quiete. La cerimonia si avviava al termine, la bara veniva portata fuori per essere caricata sul carro funebre, i parenti in lacrime iniziavano ad uscire dalla chiesa, che nel frattempo era tornata piccola e solida nella sua struttura.

A quel punto un pensiero si insediò nella mente di Miriana: è vero che non aveva mai visto un funerale se non nei film, ma non aveva neanche mai visto un film in cui un’amante presenziasse ad un funerale. Non aveva neanche mai letto un libro che mettesse in luce le implicazioni di una relazione clandestina a lungo termine. Non aveva mai ascoltato una canzone che parlasse dell’inquietudine interiore di una donna che ama senza risultare legittimata a farlo. Si accorse che quello che non aveva era un amore secondo la legge e secondo i comuni canoni della convivenza civile.

Dopo gli abbracci e le strette di mano, riti ai quali Miriana non partecipò, Il corteo proseguì verso il cimitero. Miriana si recò, invece, in un bar situato a poca distanza dalla chiesa. Il bar in cui aveva lavorato come cameriera quando aveva diciotto anni. Il luogo in cui aveva incontrato Maurizio. La gestione e gli arredi erano cambiati nel tempo, ma appena buttato giù un bicchiere di prosecco le sensazioni tornarono ad essere quelle di ventidue anni prima: un misto di voglia di vivere ed eccitazione derivante dal non sapere cosa sarebbe successo di lì a poco. Sensazioni che Miriana desiderava mantenere per tutta la vita. In quel momento si sentì più viva che mai: mentre la moglie e i figli di Maurizio stavano piangendo la morte del defunto, lei stava facendo ciò che aveva sempre fatto, e che era bravissima a fare: godersi la vita, con un brindisi, in un eterno istante. Finché sarebbe durato.

Miriana pensò che, se quel giorno fosse andata a lavorare, a quell’ora sarebbe stata ancora in ufficio, perché tra una cosa e l’altra non riusciva mai ad uscire presto. Doveva usare al meglio le ore di permesso che aveva preso: girò per le vie del centro ed entrò dal suo fiorista preferito. Ne uscì con una sobria composizione di rose bianche e gerbere, che depositò nel bagagliaio della macchina. Poi entrò in una cartoleria che faceva anche da negozio di giocattoli. Basandosi su quel poco che Maurizio raccontava sui propri figli, comprò un pallone da rugby per Marcello (il più grande), una mucca di peluche per Magda (quella di mezzo) e un trenino per Filippo (il più piccolo), e fece impacchettare i tre regali.

Poi tornò alla macchina, guardò l’ora, pensò che la vedova e i bambini sarebbero stati occupati con il funerale ancora per un po’, attraversò il quartiere residenziale guidando fino alla villetta in cui viveva la famiglia colpita dal lutto, si coprì il naso e la bocca con il foulard rosa per non farsi vedere e depositò i tre pacchetti e la composizione floreale davanti al portone. Tornò in macchina, alzò il volume della radio e guidò molto lentamente, facendo attenzione ad ogni piccolo particolare intorno a lei, messo in risalto dalla luce del tramonto. Chissà come sarebbe stato vivere lì, in una di quelle villette all’interno del quartiere residenziale. Chissà come sarebbe stato formare una famiglia con Maurizio, crescere dei figli con lui.

Deviò dal percorso che la portava verso casa e passò dalla campagna. Dopo qualche minuto di strada sterrata fermò la macchina. Intorno non c’era nessuno. Alzò il volume della radio e si mise a cantare, ma più che di un canto si trattava di grida isteriche. Miriana in quel momento aveva un gran bisogno di svuotarsi. Di allontanare da sé vent’anni di vita. Urlò per una decina di minuti, finché non ebbe più senso farlo. Poi ricominciò a respirare. Sentiva le tempie che le pulsavano, sentiva che il sangue che circolava la stava nuovamente riempiendo di vita, e che nuova aria le stava entrando nei polmoni. Si sentì finalmente tranquilla. Spense la radio e rimase seduta in macchina per un quarto d’ora abbondante, finché il cielo divenne buio.

Poi tornò a casa. Si tolse i vestiti, si fece una doccia, si asciugò e si mise il pigiama. Si preparò una cena gustosa a base di pesce e bevve una mezza bottiglia di vino bianco. Si ricordò che durante il funerale la moglie di Maurizio aveva detto che il marito era morto per un infarto improvviso. Accese il computer e cercò su internet le informazioni necessarie per fare una donazione al reparto di cardiologia dell’ospedale. Fece un bonifico di cinquemila Euro: tutto ciò che col suo lavoro di impiegata amministrativa era riuscita a mettere da parte negli anni.

Si coricò nel letto, guardò un po’ di televisione, dopodiché si accorse che il sonno stava sopraggiungendo. Spense il televisore e si addormentò serena.

La mattina dopo si recò a lavorare. Nessuno si era chiesto cosa le fosse successo il giorno prima. Nessuno gliel’aveva chiesto apertamente. Per certi versi sembrava la stessa Miriana di tutti gli altri giorni, eppure il suo nuovo sorriso annunciava la scoperta della morte ed un rinnovato desiderio di vita.