venerdì 16 giugno 2017

Sara Brugo - Lezioni di piano

Qualcuno ha socchiuso le imposte. Un’ombra fresca invade la stanza risalendo dal giardino. La trasparenza delle tende si gonfia e  poi si rilascia mollemente.
Io sono qui. La aspetto.


Ho trascorso la settimana chiuso nel  mio silenzio, con un unico pensiero: rivederla, rivedere la sua grazia sottomessa, accarezzare con lo sguardo le sue lunghe dita, osservare di lei ogni cosa, senza la paura di venir sorpreso, senza il timore di un rifiuto.
Suonano alla porta. Eccola, è lei che viene, preceduta dalla sua voce che pare l’acqua di un ruscello.
In questa casa tutto parla del passato: il centrino ricamato sul tavolo di lucido mogano, i volumi in bell’ordine dentro la spessa libreria, il gatto che dorme silenzioso in un angolo del divano e che sembra non essersi mosso mai da lì.
Ogni cosa qui sembra vecchia. E’ vecchia.
Lei invece…Lei è aria nuova, distillato di giovinezza, amato disordine.
Solo pochi passi ormai ci dividono. Vedo la sua mano scostare i pesanti drappeggi di velluto che separano la stanza della musica dal corridoio.
Oh, meravigliosa visione!
Avanza a piccoli passi graziosi, facendo ondeggiare l’orlo della gonna appena sotto le ginocchia, un’alta cintura di stoffa le abbraccia l’esile vita e nella camiciola estiva risaltano bianchi e diafani il collo flessuoso e le lunghe braccia. Un nastro colorato le lega i capelli.  Come mi piacerebbe sciogliere quel nodo!
Non mi guarda, tiene gli occhi bassi mentre sistema sul leggìo gli spartiti. Poi avvicina lo sgabello al piano, prova la distanza dalla tastiera, s’aggiusta ancora. Infine raccoglie le sue mani in grembo e resta in attesa.
Prima che possa aver trovato il coraggio per alzare il suo sguardo su di me, irrompe a dividere la nostra silenziosa intesa quel farabutto panciuto che avrebbe la pretesa di insegnarle a suonare.
Ma lui, con la sua pancia prominente e i suoi insulsi baffi non può. E non può perché lei è già musica, naturale armonia di suoni e di gesti.
“Il solfeggio, eh? Si è preparata questa settimana col solfeggio?” la assale.
Lei, che è pura arte ai miei occhi, “Sì” risponde timidamente. “Ho fatto più volte tutti gli esercizi che mi ha assegnato.”
Mi si ritorcono le budella al pensiero di lei che, faticando a contenere la bellezza che prorompe da ogni suo gesto, si piega al volere dell’uomo che la tiranneggia e la tortura, anche quando non c’è, obbligandola a dure e insopportabili esercitazioni.
Quali armonie scaturirebbero dalle sue dita deliziose se solo fossero lasciate libere di scegliere fra crome e biscrome!
Lui non molla; non pago della candida sincerità e della fedeltà indiscutibile di lei ai suoi comandi, deve metterla alla prova: “Bene, bene. Vediamo allora. Questo è un allegro con brio, un quattro quarti. Mi raccomando, stia al tempo”.
I suoi occhi adesso mi guardano intensi e mi sembra di cogliervi un’ombra di supplica. La sua mano fuggevolmente mi sfiora.
E il mio cuore! Questo povero cuore inizia a battere e in me la vita inizia a scorrere al ritmo della sua mano che si alza e si abbassa, in battere e in levare, e poi volteggia nell’aria a scandire la successione ritmica delle note.
Sono così rapito dai suoi movimenti, dentro ai quali, come in un sogno ipnotico, mi sto perdendo.
“Attenzione a questo passaggio. Deve comprendere bene il ritmo di questo passaggio e per questo ci vuole ancora un po’ di studio”, si intromette il villano, spezzando il nostro sogno comune.
Intanto, insinuante, le si è seduto vicino, così vicino che le loro spalle quasi si sfiorano.
Soffro, vorrei riempire la faccia di questo imbecille con tutti i colpi dei quali sono capace e lo farei, se non fosse per lei che, con un tocco lieve della mano, mi trattiene.
Allora resto lì, appoggiato alla superficie specchiata del pianoforte, che riflette la mia immagine intristita e impotente, a sopportare ancora una volta la voce berciante di lui che la invita: “Adesso proviamo quel pezzo a quattro mani che le piaceva tanto. Adagio. Tre quarti.”.
Prima di iniziare a suonare, prima che le sue dita agili si lascino rincorrere  fra i tasti bianchi e neri da quelle tozze ed esperte di lui, approfittando della distrazione momentanea di quell’uomo ripugnante, rapida distende un braccio:  vedo l’incavo pallido del suo gomito e subito dopo avverto su di me la dolcezza di una sua carezza.
Suonano quei due, suonano per un lungo tempo.
Io ascolto solo lei e lei dà retta solo a me e con me condivide il ritmo, il tempo di questa musica che nasce dalle sue mani e dal mio cuore.
L’accompagno e la assecondo sino all’ultima nota che, alla fine, si perde nella penombra della stanza fra i mobili antichi, i ricami preziosi e il gatto che dorme.
Lei si alza, raccoglie gli spartiti e, prima di andarsene, con il suo piccolo indice delicatamente mi tocca.
E’ bastato questo gesto discreto ed io sono ritornato nel silenzio: il mio cuore generoso e instancabile di metronomo si è fermato.

Non mi resta che attenderla, per una settimana ancora, sognandola rinchiuso nella mia custodia, abbandonato sopra al pianoforte.

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