martedì 6 giugno 2017

Edi Sist - La clessidra e i giocolieri

Quel mattino si alzò e, come ogni giorno, scrutò attraverso gli scuri socchiusi. Intravvide un cielo carico di nuvole. Tolse il pigiama, si vestì, si lavò la faccia e andò in cucina, a preparare il caffè e ad apparecchiare la tavola da per la colazione. Il canarino che aspettava il suo mangime, il cane pronto con il guinzaglio in bocca. Tutto come un copione già studiato e imparato a memoria enne volte. Già fatto, già visto, già ripetuto, come una parte recitata che non entusiasma più. Per un pubblico sempre uguale, poco propenso ai cambiamenti e men che meno ricettivo.


Depressione! Una sola parola poteva definire il suo stato, quel mattino. Succede quando l’abitudine ti mette alla prova, quando tutto pesa e diventa insostenibile, ma devi comunque continuare. Senti che i piedi, uno dopo l’altro, compiono sì dei passi, ma trascinandosi con poca convinzione in un molle cammino come di bava di lumaca. Non è più la leggerezza della farfalla, è l’avanzare lento e pesante di un pachiderma, che dondola la testa per aiutarsi a procedere, che sembra dire di no alla vita.

E il suo pensiero non poté che andare alla sera prima, quando una banale discussione si era trasformata nell’ennesimo litigio per un nonnulla, segno che la stanchezza del vivere avvolge tutto ciò che incontra, anche un amore profondo come quello che nutriva da sempre per Carlo. Amore che avrebbe voluto difeso da tutto e da tutti, anche dal suo umore, instabile da sempre, ma che grazie a lui aveva trovato un certo equilibrio, una accettabile serenità.

Come era potuto accadere che gli impegni quotidiani, le contrarietà, le delusioni sul lavoro potessero interferire sulla loro vita, che invece avrebbero voluto immune da contaminazioni esterne! Se l’erano promesso, e ripetuto convinti, come uno slogan che ti entra nelle orecchie e ti esce dalla bocca: “Niente e nessuno all’infuori di noi, niente e nessuno contro di noi!”




Lo definiva una clessidra, il loro amore: due piramidi capovolte che non si guardano, si toccano appena nel punto più stretto, lì dove si incontrano i minuti granelli di sabbia che faticano a passare, che aspettano di scendere e fanno la fila per attraversare il lungo il corridoio che li porta sotto, alla base, più sicura, più concreta. Un punto sottile, ma fisso nel tempo e nello spazio, punto di contatto e di bilanciamento, esattamente al centro della struttura. Una piramide sotto, una rovesciata sopra, in un gioco di alternanze continue dove ora l’uno ora l’altro, sostenevano toccando il terreno o sognavano, accarezzati dal vento.

La base è l’intrico di radici, la parte sotto, quella che non si vede, quella che, nascosta nella terra, spilla l’acqua della pioggia e la trasmette poi al tronco, ai rami, alle foglie e permette alla pianta di vivere. Senza le radici l’albero non vive, ma chi sa come sono fatte le radici di un albero? La chioma sì: è la parte più bella, coi suoi fiori e le prime foglioline in primavera, coi suoi frutti d’estate, coi colori caldi dell’autunno, con la tenerezza dell’inverno.

Eppure le radici… è come non ci fossero agli occhi della gente. Quando le studi a scuola, fai fatica a immaginarle: improbabile astrazione, concetto filosofico. Solo quelle superficiali si rendono visibili, quelle che rompono l’asfalto e non trattengono la pianta, che la lasciano cadere durante i violenti temporali dell’estate. Non sono affidabili, come la piramide rovescia che sta sopra alla clessidra.

Ecco, quel giorno, lei si sentiva la parte più bassa della clessidra: quella con la solida base verso terra. Quella che poggia sul terreno e che sopporta il peso del giocoliere, che gli permette di far girare i suoi birilli davanti a un pubblico entusiasta che guarda solo verso l’alto, verso il cielo. I birilli girano e a volte cadono. Chi sostiene il giocoliere li raccoglie e li porge all’altro perché possa continuare il suo numero. Sempre, all’infinito.

La piramide più bassa, che accoglie come una madre premurosa la sabbia già transitata nell’imbuto che si deposita man mano formando un unico strato uniforme. Che aspetta e che non sogna. Proprio come lei, quel mattino.

I giorni di un amore sono sabbia nella clessidra: tutti uguali, indistinti, uniformi. Potresti muoverli, agitarli: ondeggiando, cambiano ordine e spazio, ma non lo avverti, non te ne accorgi nemmeno che sono diversi da prima. All’inizio no: li distingui, eccome, uno per uno, i giorni di un amore: l’emozione della novità prima che diventi abitudine. Ogni cosa è vissuta come la prima volta di un tutto. Poi, esaurita l’estasi del sogno, della piramide rovesciata, decidi se cominciare a pensare al tuo progetto. Due architetti in sintonia, a gettare le basi di umile casa o di un ambizioso grattacielo. Era stato originale il loro progetto? Solido sì, perché durava da vent’anni. Originale, se lo stava chiedendo in quel momento. E per lei, la mancanza di originalità, di novità, equivaleva a fondamenta instabili: ed eccolo lì, il loro grattacielo, alto, infinito, ma sempre uguale a se stesso: noia e fatica della noia.




Immaginava che i granelli stessero ormai per riempire la base: la clessidra si doveva capovolgere o il tempo si sarebbe fermato. Di lì a poco sarebbe stato il suo turno di condurre il gioco: avrebbe anche lei toccato il cielo girando i suoi birilli e poggiando sulle spalle del suo amore per non cadere.

Avrebbe rischiato di precipitare se lui non l’avesse sostenuta, ma avrebbe finalmente visto il cielo. Bisogna rischiare, se si vuole vivere di azzurro, reggersi sulle spalle dell’altro che, come un moderno Atlante, sostiene la gravità del mondo e ne permette la continuità.



Immaginò migliaia di clessidre e migliaia di giocolieri ad aiutare i tanti amori a stare in equilibrio l’uno sull’altro. E poi immaginò di prendere la moka, di preparare l’ennesimo caffè, di berlo in terrazza, mentre l’alba regalava i primi bagliori giallo arancioni del sorgere del sole. Immaginò di aspettare che Carlo si alzasse, di ringraziarlo per aver sempre sopportavo le sue malinconie, per aver aspettato con pazienza infinita che passassero, per aver ogni volta aggiunto i suoi mattoni al grattacielo, nonostante tutto e per essersi sforzato di riconoscere, tra i milioni di granellini, i singoli episodi della loro storia. Là dove lei vedeva noia, lui riusciva a trovare novità e stimolo a procedere.



Le sue labbra si incresparono in un lieve, impercettibile sorriso e vide loro due, sulla spiaggia, a contare le briciole di sabbia sotto di loro, intorno a loro, ad erigere un altare al loro amore, che, lambito dalle onde dell’alta marea, avrebbe rischiato ogni volta di crollare. E loro, consapevoli del rischio, avrebbero continuato a riedificarlo proprio lì, sulla riva, a sfidare le ondate e le tempeste, cocciuti, testardi, l’avrebbero ricominciato, ogni volta, da capo, sempre più alto, sempre più bello, sino a che la forza della volontà l’avrebbero permesso.

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