martedì 6 giugno 2017

Alessandro Albarelli - Da grandi

C'è un ragazzo che suona una specie di sega con l'archetto, davanti al municipio. Ai suoi piedi, una vecchia radio che manda la base di pianoforte, un cappello con dentro pochi spiccioli e un bastardo di taglia media, col muso simpatico.


Sta eseguendo Lili Marleen. Molti passanti, avvolti nei cappotti, lo schivano e vanno oltre. A malapena lo notano, mentre stringono le buste firmate dei negozi. La melodia che esce da quel ferro ricurvo, appena udibile nel viavai, pare quasi un lamento, ma qualcuno si ferma come tirato da una corda invisibile.
Una signora anziana è immobile, assorta come se stesse rivivendo un vecchio ricordo. Un bambino si stacca dal padre e va a buttare la moneta nel cappello; il cane scodinzola.
C'è anche lei, una donna esile avvolta in una giacca che fa anche da sciarpa, o il contrario.
In mano non ha buste, sigarette o telefono; sembra quasi appoggiata sui sanpietrini per caso, per errore.
Ha gli occhi rossi e lucidi. Subito penso sia per il freddo, poi mi accorgo che sta piangendo. Questa cosa di piangere in pubblico così, senza badare a chi ti guarda, io non ci riuscirei mai. Non riesco a non guardarla.
«Tutto bene?» Le chiedo.
«Oh, sì! È solo questa musica... bellissima!» Mi dice, passandosi la mano sul viso. «Mio padre la fischiava spesso, quando era felice.»
Guardo il suonatore. Dietro di lui si alzano in cielo due palloncini colorati, uno rosso e uno verde, sfuggiti a qualche bambino.
«Già, fa qualcosa al cuore.» Che risposta stupida! Ma guardo il suo naso appuntito, le guance bianche tuffarsi nella lana grigia, e ci vorrei scomparire anche io lì dentro, per adagiarmi nell'odore del suo collo.
Arrivano due vigili. Fanno storie al suonatore, a come tiene legato il cane, a come intralcia il corso. Lo fanno sgombrare.
Andiamo al caffè più vicino. Lei starnuta spesso; prende un punch perché, dice, è molto raffreddata. Io ordino il terzo macchiato della mattina. Si srotola la sciarpa/giacca, e sotto compare una camicetta azzurra, innocua ed elegante come quella di una maestrina, ma le sta un incanto.
Rompo il ghiaccio sulle feste passate da poco. Ha una voce che sarebbe perfetta per un programma in radio. Ci interrompe il suo telefono; lo sradica dalla borsa e si catapulta fuori dal bar. La osservo  dalla vetrata mentre parla, sorride e tira lunghe boccate dalla sigaretta. Nella sua borsa, rimasta aperta sulla sedia a fianco, noto - con discrezione - un portamatite dei Peanuts, una scatolina di legno lucido che forse è uno specchio, un mazzo di chiavi con attaccato un proiettile consumato.
La guardo rientrare; rossa in viso, lo sguardo vispo.
«Allora, che lavoro fai, di bello?» Mi chiede sedendosi.
«Sono... a casa! Da un anno sono disoccupato. E tu?»
«Maestra!»
Giovanna. Fa la maestra.

Passiamo i pomeriggi insieme. Vado a prenderla e ogni tanto mi fa salire in casa. Mi trovo davanti una marea di cose nuove; tutti quegli oggetti comuni che circondano una persona, che la legano al suo passato, del quale io non faccio parte. Vorrei sapere la storia di ognuno di quei soprammobili.
Una foto sulla credenza di lei con un uomo biondo e riccio, bellissimo, un pianoforte a muro con uno spartito di Erik Satie, una serie di quadretti dipinti a olio, un piatto di ceramica di un ristorante romano, quando ci avrà mangiato là?
«Ah, non farti strane idee...» Mi dice infilandosi un paio di stivali vellutati.
«Cosa?»
«Non sono una pianista! Era di mio padre, sto provando quel brano da sei mesi ma proprio non viene.» Mi sorride, mi prende a braccetto e usciamo. Come siamo sconosciuti... come si fa ad amare, da grandi?

Siamo andati al Planetario, poi a camminare ai laghetti. Un giorno al cimitero, davanti alla foto di una sua amica. Mi ha portato al circo - che odio - e l'ho portata al canile a sgambare con Amalia, la mia  cagnetta adottiva.
Un pomeriggio al parco le ho detto che ho fatto Aikido per un sacco di anni. Mi ha chiesto di mostrarle una mossa, e così ci siamo trovati nell'erba gelida dopo una schienata perfetta. Mi è quasi sembrato di sentire odore di violette, possibile?
Le suona sempre il telefono. Lei si allontana per parlare, ma sempre meno. Quando le arrivano messaggi io sono felice perché tutto sommato è un suono che possono sentire solo pochi intimi, me compreso.

Siamo usciti con i suoi amici. Non ho mai capito quanto si debba tener conto delle sensazioni “a pelle”, nel corso della vita. A volte, sono certo, ti possono salvare, oppure si possono rivelare errori clamorosi, perdite di tempo. I suoi amici e le sue amiche, a pelle, non mi piacciono. Il “risto-pub” è un ambiente forse un paio di gradini più in alto nella scala sociale rispetto a quelli che frequento io. Marco-Sara-Luca-Elena-Alberto-Stefano parlano di  immigrazione. Guardo i loro mocassini intonsi, le borse eleganti,  gli I-phone sempre accesi, le unghie e le sopracciglia curate, le montature degli occhiali in tartaruga, gli sguardi che non mentono e mostrano comunque che, per loro, i problemi del mondo potranno sempre essere lasciati fuori dalla porta di casa, sullo zerbino. Rifletto su quale sia la miseria peggiore, stare in un barcone in balia delle onde, senza uno straccio di idea di come finirà, o pensare di essere a posto con un paio di mocassini ai piedi.
Giovanna dopo un po' coglie il mio malessere, e penso che se c'è empatia è una cosa buona, dopotutto. Mi prende una mano e non dice niente, io unisco col dito i tre nei che ormai ho imparato a conoscere del dorso della sua.

L'ho portata al mare ai lidi, dove ho passato felicemente la mia infanzia e adolescenza, almeno così ricordo. Il Po, la sabbia e le zanzare fanno l'acqua brutta, non come quella della sua riviera, di là dall'appennino. È solo al tramonto che la convinco, anche se non c'è proprio caldo, a togliersi le scarpe e bagnare i piedi insieme a me nella battigia. Calpesta le alghe e le conchiglie rotte come se fossero vetri aguzzi, sento che mi maledice a ogni passo ma io rimango impassibile, come un maestro zen aspetta che l'allievo apprenda da solo la lezione.

A casa di sua madre. Ha preparato tagliatelle ai funghi porcini squisite accompagnate a un vino orribile. Ci siamo seduti sul divano e lei, sua madre, ha iniziato a parlare di vecchie vicende, facendo sorridere e arrossire Giovanna. Poi è arrivato il momento delle foto di famiglia. Guardo i cugini, gli zii, i nonni; riconosco un lineamento comune nel taglio degli occhi che proprio non mi piace e che Giovanna, per fortuna, non ha ereditato. I suoi parenti hanno un'inclinazione severa tra fronte, sopracciglia e naso, e sembrano sempre sul punto di sgridarti per qualcosa. Un ceppo al quale, in una situazione normale, non mi sarei avvicinato neanche per sbaglio.
C'è tutta una serie di album che vengono sorpassati senza neanche essere toccati. Probabilmente ci sono Giovanna e il suo ex marito molto felici, ma a malapena ci penso; sfrutto l'imbarazzo per assicurarmi, a intervalli regolari, che le sue sopracciglia siano veramente quel delicato colpo di pennello che attenta al mio diaframma.

Per la prima volta viene a cena da me. Si ferma a dormire. Nel pomeriggio volevo riordinare tutto, nascondere le mie impronte, ma poi ho passato solo l'aspirapolvere. E messo due rose rosse, vere, in un vaso.
Entra in casa e appoggia le sue cose in giro; sembra una nave che butta gli ormeggi in porto e io rimango impalato dall'emozione.
Mangiamo un buonissimo arrosto preso al discount, poi ci mettiamo sul divano a finire il vino. Lei si toglie la maglia e mi bacia, coi capelli fra le labbra. Il suo odore mi dà alla testa. Vedo un tatuaggio sulla sua spalla: un cuore con una "L" sopra. Lei starà guardando la foto di mia figlia davanti al London Eye, sul muro del salotto.
Come si fa ad amare, da grandi?

Non lo so, però abbraccio Giovanna e penso che dobbiamo assomigliare a quei due palloncini, uno rosso e uno verde, sfuggiti di mano ai bambini.

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