sabato 29 aprile 2017

Marco Maresca - Genesi ed epilogo di una fabbrica

1965.
Non è merito mio l’esser nato in una famiglia agiata. Merito mio sarebbe eventualmente utilizzare i beni di cui dispongo per migliorare l’ambiente in cui vivo e le condizioni di chi si trova a lavorare per me.
Sono nato in una famiglia che cent’anni fa si distingueva per nobiltà e, ora che i titoli nobiliari non contano più, l’unico modo che abbiamo per misurare quello che siamo è dato dalla nostra disponibilità di denaro. Durante le guerre, la nostra città si è mantenuta in vita anche grazie alla filatura avviata nel secolo scorso dai miei antenati, ottenendo perfino che alcuni dei nostri salariati venissero dispensati dall’impiego militare. La benedizione della nostra condizione agiata ha permesso di salvare alcune vite che non avrebbero potuto scegliere nulla di per sé. Ma anche questo non è un merito: è solo il frutto di un volere più grande.
Quello che ora voglio fare è prendere atto dei nuovi mezzi di produzione e delle rinnovate necessità della popolazione di cui mi sento responsabile, e sperimentare un’innovativa tipologia di fabbrica. Partiremo dalla nostra tradizione tessile per costruire un centro lavorativo perfettamente integrato nell’ambiente urbano. Più che una fabbrica, la nostra sarà una vera e propria città, con negozi e mercati appena fuori dai reparti in cui i nostri dipendenti svolgeranno il proprio lavoro. Ci sarà una foresteria che accoglierà i nuovi assunti che arrivano da lontano. Un grande parco attrezzato regalerà luce e serenità a chi vorrà trascorrere con la propria famiglia le pause lavorative. Ci saranno ambulatori medici, scuole, perfino una chiesa per chi vorrà pregare. A regime, il nostro centro darà lavoro direttamente o indirettamente a quindicimila persone e tutte vivranno a pochi metri dal luogo in cui troveranno impiego. Ed ognuno vivrà la propria condizione come un privilegio.
Applicheremo le più innovative soluzioni della tecnica per creare un ambiente lavorativo in cui saranno ridotte al minimo le azioni ripetitive. I nostri operai si trasformeranno gradualmente in tecnici e specialisti delle apparecchiature che costituiranno il loro patrimonio lavorativo. Gli orari saranno flessibili, per conciliare la vita lavorativa con quella familiare.
Ma questo non è tutto. Sappiamo che il futuro riserverà sempre maggior spazio alle macchine e che verranno a mancare molti dei ruoli adesso ricoperti dalle nostre persone. Per questo vogliamo cominciare già da ora a valorizzare in tutti gli ambiti la crescita di chi lavora per noi. Alcuni imprenditori generosi, dei quali ho la fortuna di essere amico, si sono offerti di concedere gratuitamente ai nostri dipendenti e alle loro famiglie l’accesso gratuito alle migliori proposte educative, agli spettacoli teatrali e cinematografici, alle scuole di specializzazione, ai corsi formativi, alle mostre d’arte e di tecnica, alle borse di studio, ai campeggi e agli alloggi di vacanza, ai percorsi di crescita professionale ed umana. E’ la speranza nel futuro e nelle nuove generazioni ciò che ci muove. Per questo la nostra non sarà solo la costruzione di una fabbrica ma la costruzione di un amore.

1991.
Nove anni fa ho abbandonato il mio paese per venire a lavorare qui nella fabbrica. Quando sono arrivato parlavo solo in dialetto ed ero impaurito dalle usanze del posto in cui ora mi trovo. Eppure cercavo di essere forte, perché volevo sollevare i miei genitori dalla responsabilità di crescermi in una terra povera di lavoro e di opportunità. Mio padre e mia madre erano felici per me e un po’ alla volta stavano iniziando ad abbandonare i pianti e le malinconie iniziali. Certo all’inizio non ho trovato un ambiente facile, e sono stato spesso deriso per il mio accento, ma non ho mai visto una vera cattiveria nelle azioni altrui. Anzi, c’era nei miei colleghi una sorta di spirito di appartenenza, qualcosa che sapevo che avrei potuto provare anch’io un giorno.
Il proprietario della fabbrica è un uomo d’altri tempi. Una mente illuminata. Ho avuto il piacere di incontrarlo personalmente più volte e si è sempre fatto carico della mia situazione. Ha voluto che andassi a scuola, spesso dandomi dei permessi retribuiti in orario lavorativo, perché ci teneva che imparassi a parlare e scrivere correttamente nella lingua grazie alla quale tutti possiamo comunicare, lasciando da parte i dialetti che creano solo divisioni. E quel senso di appartenenza al quale ambivo così tanto mi ha infine pervaso quando ho conosciuto Laura, quella che due anni fa è diventata mia moglie. Sono entrato anch’io a far parte di una grande comunità.
Laura faceva la commessa in uno dei negozi che si trovavano subito al di fuori dei reparti della fabbrica. Vivendo da solo, trovavo comodo poter reperire in pochi minuti quelle poche cose che mi servivano per la cena. La mia noncuranza nel fare la spesa, così come la mia provenienza, non erano passate inosservate agli occhi di Laura, una ragazza bella e alla moda, che era nata e vissuta a pochi metri dalla fabbrica e che quindi si sentiva più che mai integrata in quel mondo che per me era tanto lontano da casa. Era stata lei a cercare di parlare con me e di farmi sentire a mio agio. Era in pena per me, voleva farmi sentire parte del suo mondo e allo stesso tempo vedeva nella mia storia e nella mia provenienza una via di fuga dalla sua vita preconfezionata.
Pochi mesi dopo il nostro matrimonio, il negozio in cui Laura lavorava ha chiuso: il numero di lavoratori della fabbrica, in costante diminuzione negli anni, così come la costruzione di un nuovo supermercato appena fuori dal perimetro aziendale, hanno fatto sì che le aree commerciali interne alla fabbrica si riducessero sempre più. Erano anni di desolazione: era scomparso il parco giochi, gli ambulatori non erano più presidiati, l’erba era incolta e l’illuminazione sempre più scarsa. Era arrivato il declino.
Laura mi aveva annunciato di aspettare un bambino proprio pochi giorni prima di perdere il lavoro, ma confidavamo di riuscire a tirare avanti anche soltanto con il mio stipendio. Poi un giorno il proprietario della fabbrica ha fatto il giro dei reparti e il suo volto era coperto di lacrime. Nel giro di poche ore mi è stata consegnata quella maledetta lettera che ha cambiato la mia vita e quella della famiglia che stavo creando. Una sera Laura si è sentita male e da quella volta non mi ha più parlato del figlio che aveva in grembo. La mia vita, i miei sogni, le mie aspettative, l’amore che avevo dentro di me per la realtà che stavamo amorevolmente costruendo, sono stati chiusi a chiave come i lucchetti intorno ai cancelli di accesso alla fabbrica.

2017.
Sono nata poco più di vent’anni fa in una cittadina dell’Est Europa nella quale la famiglia di mio nonno si è autoesiliata per evitare di finire in miseria. Qui dove vivo sembra esserci tanta povertà ma io non ne sono mai venuta in contatto, poiché in città c’è un’altra dozzina di famiglie agiate come la mia e ci frequentiamo solo tra di noi. Ho alcuni interessi: arte, giardinaggio, ma non so dire se l’aspetto di bellezza del mondo che ho intorno l’avrei colto anche se fossi nata e cresciuta al di fuori della mia attuale condizione agiata.
Quello che so dell’attività di famiglia proviene da qualche racconto dei miei genitori. So delle mie antiche origini nobili e del desiderio di mio nonno di restituire ai più umili, sottoforma di lavoro, almeno una parte del benessere di cui aveva goduto in vita. La sua idea di fabbrica, che inglobava un’intera città, al giorno d’oggi sarebbe inquietante. L’elemento antropico che sovrasta la presenza umana. L’uomo che vive in funzione delle macchine alle quali è asservito. Eppure la costruzione di mio nonno aveva in sé qualcosa di romantico: rappresentava una sorta di amore sia materno che paterno, un confine familiare all’interno del quale si svolgevano in modo protetto e sorvegliato tutte le umane attività, sotto l’occhio vigile del patriarca che per nessuna ragione avrebbe fatto mancare ai propri figli i mezzi per crescere serenamente.
Mio marito appartiene ad una famiglia con una storia simile alla mia. Siamo stati spinti a frequentarci sin dalla più giovane età ed avevo solo vent’anni quando mi sono avventurata in un matrimonio che aveva lo scopo di salvaguardare la condizione di entrambe le famiglie. Un’unione che mi ha vincolato ancora di più ad un mondo completamente etereo, liquido, così distante dalla concretezza del perimetro in cemento della fabbrica di mio nonno. Eppure è un mondo che ne costituisce semplicemente l’evoluzione.
Mio nonno ha dato lavoro a tanta gente: si può dire che abbia salvato alcune vite. Quando il suo modello imprenditoriale non è stato più sostenibile, si è ritirato, in modo da salvaguardare la condizione della propria famiglia, attento a non disperdere quanto aveva egli stesso ricevuto. I suoi operai trovavano in lui una natura quasi divina, in quanto poteva determinare nel bene o nel male le vite dei propri sottoposti. Il giorno in cui ha dovuto dire addio alla sua creazione ha sofferto e pianto. Ma non capiva che quell’istante sanciva la sua trasformazione in vera e propria divinità: gli dei di oggi non legittimano la propria esistenza grazie alle riverenze di chi li venera. L’odierno Olimpo, mai toccato da povertà e ristrettezza, poggia le proprie basi su giganteschi movimenti di numeri all’interno di un complesso apparato finanziario slegato dal mondo reale. Quello in cui mi ritrovo quasi costretta a vivere è un mondo da sogno, fatto per rimanere quasi segreto. Certamente possiede alcuni elementi di bellezza, che è mio compito cogliere e ai quali mi aggrappo con tutte le mie forze, altrimenti so che potrei non sopportarne il peso. Ma è un mondo totalmente vuoto, manca di concretezza, è poco più di un’illusione.
Sembra irrispettoso nei confronti della realtà in cui vivo, ma avrei tanto voluto lavorare nella fabbrica di mio nonno e lì conoscere ed amare un giovane proveniente da una famiglia modesta. Avrei apprezzato i suoi sforzi, la sua concretezza nella costruzione di un amore. Forse avrei vissuto tutta la vita con lui in un mondo fatto di ostacoli tangibili e spesso superabili. Solo al raggiungimento della pensione avrei messo mano ad una parte del capitale a mia disposizione e l’avrei usato per donare al mio compagno qualche anno di meritato riposo. O forse, ancora in giovane età, gli avrei rivelato di essere la nipote del proprietario della fabbrica e gli avrei dato accesso ad un inatteso mondo di agio, di benessere, di interazioni sociali. E ne sarebbe stato felice, ma per motivi diversi da quelli che si possono immaginare. Sì, perché chi ha dovuto badare alla propria sussistenza per tanti anni non gode per il ribaltamento dei ruoli di oppresso ed oppressore, ammesso che io stessa possa considerare mio nonno come appartenente a quest’ultima categoria. Ciò che avrebbe reso felice il mio uomo mai conosciuto sarebbe stata la comprensione dell’amore che muoveva l’intero progetto. Un intero microcosmo esistente grazie a chi ha condiviso il proprio benessere per migliorare la condizione di tutti, o almeno dei più prossimi, finché ha avuto senso farlo.
Ma quello che è stato non si può cambiare, e quindi le mie parole rimarranno liquide come questa società in cui vivo. Rimarrò confinata in questo Olimpo molto più crudele di una fabbrica. Con i miei legami familiari, dettati dalla logica, ma privi dell’amore che avrebbe dato ad essi una finalità. Ad occuparmi di come disporre di giardini ed oggetti d’arte, perché sono le uniche cose belle che vedo intorno a me e sulle quali posso agire in modo determinante. Vivrò in questo spazio etereo senza aver mai conosciuto un mondo lontano, fatto di arbusti selvatici che bucano il cemento di costruzioni abbandonate, di polvere che avvolge macchinari non più in uso, di luoghi che perdono identità e di famiglie che si estinguono come rami secchi per salvaguardare la pianta a cui appartengono.
Noi siamo la pianta, e continueremo a vivere, se non saremo troppo annoiati per farlo.

Ma a che prezzo?

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