venerdì 29 maggio 2015

Giulia Gaveglio – La capretta di Chagall

Era il profumo dell’erba che aveva segnato la sua nascita, trascinandola al mondo come trasportata dal suono di un magico richiamo. Se avesse potuto avrebbe cercato di descriverlo, scegliendo con cura parole riecheggianti libertà, vento e sole: ma non era in grado di usare le parole degli umani. Pensava che forse, un giorno lontano, avrebbe trovato un modo per comunicare con loro. Avrebbe tentato di spiegare che quel mondo, che avevano la pretesa di abitare, non sarebbe mai stato loro proprietà. Avrebbero dovuto constatarne la superiore intelligenza ed infine l’avrebbero eletta “sindaco”, o comunque si dicesse nel loro linguaggio. Una statua sarebbe stata eretta in suo onore e avrebbe potuto governare su di loro con giudizio: tuttavia mai e poi mai si sarebbe abbassata a mangiarli. Si riscosse da tali pensieri scuotendo la testa, mentre le altre caprette brucavano silenziose, lanciandole di tanto in tanto rapide occhiate di muto sospetto. Si scostò leggermente, giungendo al limitare del campo, e volse il muso al sole, pervasa da un senso di solitudine. Odiava pensare a una vita trascorsa interamente nel lasciarsi portare, fidandosi ciecamente degli uomini come le altre piccole, candide conformiste. Gli umani non le piacevano affatto: erano meschini ed egoisti, e non avevano rispetto né per loro stessi né per il mondo. Simili pensieri la rendevano a volte tanto triste che le sembrava di diventare sempre più pesante, sprofondando con gli zoccoli nel terreno fino a non riuscire più a muoversi. Ma poi, guardando il cielo, un senso di leggerezza s’insinuava dolcemente in lei, dalla punta del muso fino in fondo alla coda. Il cielo era libertà e gli uccelli liberi di volare, come anche lei avrebbe voluto fare. Ma era impossibile, lo sapeva bene: lo dicevano le leggi dell’aerodinamica. Non poteva tuttavia impedirsi di immaginare quanto si sarebbe sentita leggera nel fluttuare su paesaggi stranieri, come tappeti variopinti ai suoi piedi.
Fu riscossa d’un tratto dal suono di un passo umano sul sentiero che conduceva al pascolo. Probabilmente il pastore di ritorno. Non si diede la pena di raggiungere le compagne, che correvano festanti a radunarsi in un angolo: rifiutarsi di ritornare verso la stalla era il suo piccolo atto di ribellione quotidiana, e non se ne voleva privare. Voltò il muso verso il sentiero, assumendo come una maschera la consueta aria testarda di sfida. Rimase sorpresa nel constatare di essersi sbagliata: l’uomo che arrancava su per il sentiero non somigliava affatto al pastore. La prima cosa che notò di lui furono le mani affusolate, con dita lunghe e sottili, dall’aria forte e al contempo delicata. Sembravano nate per creare qualcosa di bello. Aveva occhi tristi e leggermente inclinati verso il basso,  capelli folti e scuri, arricciati in volute mosse dolcemente dal vento. Portava con sé una curiosa struttura di legno, grandi pezzi di cartone bianco ed infine una misteriosa valigetta di pelle, sdrucita dall’uso, su cui si potevano leggere incise due iniziali: MC. L’uomo si fermò a metà del sentiero, guardandosi attorno. Ripreso fiato, raggiunse il margine del boschetto, dove la capretta lo osservava ammutolita. Qualcosa in lui la rapiva profondamente e la atterriva al tempo stesso. Lo strano individuo posò a terra la valigetta e sistemò sulla struttura uno dei grandi pezzi di cartone. Trasse dei piccoli tubetti e, preso un pezzo di legno tondo e sottile, cominciò a spremerveli sopra, facendone fuoriuscire colori variopinti che si mescolavano lungo le venature. Con lo sguardo annebbiato, cominciò ad intingervi un piccolo pennello, con cui accarezzava delicatamente il cartone: un mistero  tanto affascinante da esercitare un influsso quasi magnetico su di lei, che poco a poco si avvicinò per poter vedere meglio. Come per una magia arcana, il tempo parve fermarsi mentre macchie variopinte prendevano vita, scivolando sulla tela. D’un tratto l’uomo si voltò e si accorse di leiche atterrita, con il cuore che batteva forte, corse alloraveloce giù per il pendio. L’aria del tramonto era fredda, di un freddo curiosamente piacevole. Mentre camminava si sentiva più leggera e non sapeva spiegarsene il motivo. Per la prima volta, si era spontaneamente avvicinata ad un essere umano senza averne paura e in lei era nata una sensazione di dolcezza nuova: avrebbe voluto rimanere per tutta la notte a guardare il lavoro febbrile di quelle mani, quel volto concentrato e un po’distratto. Aveva ad un tratto realizzato, con la certezza assoluta con cui si realizzano soltanto le cose vere, che di lui si poteva fidare. Giunta all’ovile si era sistemata sulla paglia, stremata da confusi e dubbi pensieri. Tuttavia non riuscì a soffocare del tutto l’idea che quell’uomo avesse fatto nascere in lei germogli di bellezza. Il giorno dopo si sorprese ad attendere con nervosismo l’ora del tramonto. Nulla le assicurava che MC sarebbe venuto di nuovo, ma lei non aveva dubbi. Non la stupì affatto dunque vedere il suo passo incerto, caracollante sotto il peso dell’attrezzatura, farsi nuovamente strada per il prato. Questa volta l’uomo si accorse subito della piccola presenza che lo osservava con attenzione. Sistemò il cavalletto proprio di fianco a lei. Non proferì parola, ma la guardò negli occhi, salutandola con il linguaggio muto che è proprio delle anime sensibili, che sole lo sanno parlare. La capretta si avvicinò ulteriormente e pian piano sentì la paura iniziale scemare. Si sdraiò sull’erba, rispondendo con lo stesso linguaggio silenzioso. Lo osservò lavorare finché le prime stelle non iniziarono ad apparire sbiadite. La notte, gli occhi spalancati nel buio, seppe che la sua vita era stata cambiata. Se ne avesse conosciuto il significato, forse avrebbe usato la parola amore per descrivere questo cambiamento. Ma le parole sono spesso troppo umane per descrivere le cose veramente belle e pure della vita. Per alcuni giorni, il loro contatto si svolse allo stesso modo, una danza delicata di cui solo loro due conoscevano le regole. Il pittore arrivava, salutava la capretta con i suoi occhi tristi e sistemava il lavoro, inclinandolo leggermente affinché lei potesse vedere. Di giorno in giorno il disegno prendeva vita, come una favola sfuggita alle pagine del racconto: i colori erano sempre più vivi ed intensi. Tuttavia, curiosamente, essi non sembravano descrivere la realtà che dormiva quieta intorno a loro. Era un luogo altro, un luogo felice: come in uno specchio, le sembrava che il quadro sapesse leggere in lei quanto non era in grado di dire. Lui osservava affascinato quella piccola creatura spontanea, che nell’adorazione con cui fissava il cielo riusciva a condensare in disarmante semplicità intere poesie, trattati di filosofia e matematica, come una parola a lungo cercata e dimenticata. Così il tempo passò insieme a loro, ed i due impararono a conoscersi, bevendo dai reciproci desideri, senza mai interrompere questo muto contatto. Finché un giorno, lui le rivolse la parola. Era l’ora appena precedente il tramonto, quella che entrambi preferivano: i colori del cielo sembravano prendere fuoco, e la realtà avvicinarsi un po’ di più al loro mondo fatato. La voce le giunse come da lontano, a rompere il silenzio rituale a cui era abituata; eppure non la turbò come si sarebbe aspettata. Era morbida ma profonda e sembrava far parte del tessuto di quel silenzio, come un disegno che correva lungo la trama. «Il quadro è quasi terminato» le disse. Lei non capì. O forse sì, e posò il muso sulla sua mano.
Il giorno dopo, il pittore non ritornò. Né lo fece quello dopo ancora. Il tempo divenne d’un tratto di nuovo lento, i giorni come perle di una collana infinita, identici nella loro monotonia. La capretta crebbe e divenne adulta: si rassegnò alla vita che le spettava, che avevano scelto per lei forze più grandi, vivendo nella noia dolce e malinconica di chi porta in sé le cicatrici di una rinuncia. Ma al crepuscolo il ricordo delle sere di attesa felici la rendeva un po’ meno triste e sola. Si sedeva sul limitare del prato, là dove la prima volta si erano incontrati, e attendeva l’ora del tramonto per vedere il sole morente trasformare la realtà grigia nel mondo colorato in cui l’amore l’aveva trasportata. A volte ricordare era doloroso: eppure, non aveva rimpianti. Il tempo avrebbe potuto offuscare i contorni di quell’uomo, ma non il muto dialogo dei suoi occhi, non il senso di fiducia che le aveva donato. Passarono gli anni e giunse l’inverno. La capretta cominciò ad invecchiare: il pelo divenne più rado e chiaro, gli occhi offuscati e le gambe persero lentamente la forza e l’agilità della giovinezza, costringendola a riposare nella stalla. Con grande naturalezza, cominciò ad avvertire che il suo cammino era giunto verso il termine e si stupì di non trovare in sé alcuna rabbia per questo, consapevole del fatto che la morte va accettata godendo di ogni piccola gioia nella consapevolezza del rischio di perderla. In quei momenti si chiedeva se anche il pittore fosse invecchiato. Si domandava dove fosse. A volte fantasticava su meravigliose creazioni a cui lui aveva dato vita: violini che suonavano, gatti dai volti umani, città dai colori cangianti, amanti abbracciati, i volti bagnati di pioggia lucente. E allora era di nuovo felice: sognava di lui come se davvero lo potesse vedere, tanto vicino da poterne avvertire l’odore acre di pittura, perché spesso i sogni non sono altro che vie differenti che vorremmo avesse assunto la realtà. Infine, cadde in una bruma lenta e spessa e decise di abbandonarsi alla tristezza, accogliendola nel punto più profondo del cuore. Il momento giunse senza annunciarsi, e lei lo riconobbe come un amico troppo puntuale, a cui si vorrebbe domandare più tempo: si sistemò allora su un mucchietto di paglia, decisa a morire sola, perché sempre nella vita aveva fatto da sola le cose importanti. Sdraiatasi s’assopì, avvertendo nel dormiveglia strani rumori, voci sconosciute e al contempo familiari invadere l’aria, un luogo ormai lontano. Il tocco della mano sulla sua schiena giunse improvviso. Un nodo si sciolse in lei, e all’istante lo riconobbe. Lui, d’altro canto, non avrebbe saputo spiegarle come l’aveva ritrovata. Finito in paesi lontani, aveva sentito di dover rivedere quella piccola creatura che aveva sempre ispirato i suoi giorni con un ricordo leggero e delicato. L’aveva allora cercata in tutte le stalle della piccola valle, chiedendo ai pastori, cercando l’eco di una sensazione familiare. Ed era giunto lì, dove ora, con la mano sottile sul suo pelo, sedeva accovacciato a terra, affinché fossero  alla stessa altezza. Lei aprì gli occhi con fatica e lo guardò. Si chiese dove fosse stato, cosa l’avesse portato tanto lontano. Gli domandò con lo sguardo tutto ciò, e non ci fu bisogno di parole. Avrebbe voluto rimproverarlo, ma era invecchiato anche lui: i capelli erano grigi, e le mani che lei tanto amava avevano le vene segnate e le dita stanche. Stettero per un po’ così, in silenzio, e le loro anime si fecero più leggere. Alla fine lui trasse dal pavimento un involto grande e piatto e cominciò a scartarlo con le sue belle dita, raccontandole dei luoghi che aveva visitato, delle persone che avevano incrociato il suo cammino rendendolo felice. Quando ebbe terminato, lo poggiò nuovamente a terra. Solo allora capì che era una tela. ”Non era ancora finito”, le disse. La prese da terra, ed ecco: la sua realtà colorata si stagliava dinnanzi a lei delicata e potente, così come la ricordava. I monti rilucevano dell’amore che li aveva colorati, figure lontane popolavano lo spazio. Ma al centro, a realizzare il sogno nascosto di una vita, una nuova figura, finalmente leggera e libera, volava nell’aria, ignara delle leggi dell’aerodinamica, ignara dei divieti della società, che vogliono decidere al posto nostro il modo giusto di amare. Seppe di non essere mai stata dimenticata. Serena, chiuse allora gli occhi. Sentiva l’odore della primavera.

(Liberamente ispirato al quadro “Dans mon pays” di Marc Chagall)

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