lunedì 18 maggio 2015

Carlo Venturini - Estate

E’ inutile.
Ci ho provato ad andare avanti.
Inciampo sempre nella mia infanzia.

Avevo anche imparato a bocciare “ a martello” che avevo si e no dodici anni.
Il mio maestro era Dino Remondini, praticamente infallibile nell’arte di colpire la boccia avversaria lanciando la propria dall’alto verso il basso. Disegnava parabole celestiali. Stessa forma dell’arcobaleno, ma colori più luminosi, credetemi.
Per me lui era il Maestro.
Non che mi avesse mai dato lezioni vere e proprie, sia chiaro. A dire il vero, non  mi aveva mai rivolto neanche una parola. Non sono sicuro neppure che mi avesse mai notato.
Andavo al pallaio della Casa del Popolo tutte le sere d’estate del 1989. Mi mettevo seduto in fondo, per terra, e seguivo tutte le partite del torneo.
Non mi ci volle molto a capire che il Remondini sarebbe stato il Mio Maestro.
Prendeva la sua boccia da terra, la soppesava per qualche secondo, ci sputava sopra e con la mano spalmava ben bene la saliva. Bestemmiava svariati santi, poi prendeva la mira chiudendo un occhio e tirando su la punta di un solo piede. Scagliava la boccia e … bam!
Infallibile,  non sbagliava un colpo. Davvero, non ricordo di averlo mai visto mancare una bocciata.
Non era l’unico ad usare quella tecnica per bocciare. Altri si sforzavano ad imitarlo con risultati non all’altezza.
In ogni caso, la maggior parte dei giocatori preferiva usare la tecnica della bocciata di “ striscio”, che consisteva semplicemente nel far rotolare la boccia sul pallaio senza che si staccasse mai da terra.
Il Braciola era l’esponente più efficace di questa scuola di pensiero. Magro, stempiato e con delle scarpe enormi. Magari aveva anche i piedi enormi, per quanto possa saperne io…
Il Braciola era anche molto più giovane del Remondini, ma niente a che vedere con l’eleganza del mio Maestro. Niente da spartire con la personalità del Remondini, che per altro era l’unico giocatore a non essere chiamato dagli altri con un soprannome. Per quanto ne so, non ne aveva proprio. Ho sempre pensato che nessuno fosse riuscito a trovarne uno che gli rendesse giustizia.

La sera, a cena, prima di andare al pallaio, mi rivolgevo a mio padre per cercare di saperne di più.
- Babbo, ma è vero che il Remondini è il più forte di tutti?
- Boh, non saprei. Come si fa a dirlo? L’anno scorso il torneo l’ha vinto il Braciola…

Mio padre ci perdeva sempre. Da entrambi.

- Babbo, ma è vero che bocciare “ a martello” è più difficile che bocciare “ di striscio”?
- Son due cose diverse, è difficile stabilirlo…
- E allora perché quasi tutti bocciano di striscio?
- Ognuno boccia come crede…

Niente, mio padre non voleva mai ammettere che il Remondini era il più forte in assoluto e che bocciare come bocciava lui, nessun altro sulla faccia della terra. Mio padre non voleva saperne di darmi ragione.

Quell’estate mi feci regalare le bocce. In legno. Bellissime. Leggere , ma non troppo.
Mi allenavo ogni giorno nel piccolo pezzetto di giardino che c’era dietro casa. In realtà, non è che mi allenassi proprio a giocare. Più che altro cercavo di bocciare. Disegnare arcobaleni coloratissimi, come il Maestro.
Piazzavo una boccia per terra, indietreggiavo di alcuni metri, cercavo la concentrazione. Stringevo l’altra boccia di legno in mano, ci sputavo sopra. Spalmavo la saliva per bene, in modo che si uniformasse il più possibile sulla superficie della boccia. Bestemmiavo. Alzavo la punta del piede, miravo e lasciavo andare la boccia. Solitamente la guardavo atterrare a pochi centimetri dal bersaglio. Qualche volta, quel rumore:toc!  Era il rumore del successo. Significava che tutto aveva funzionato alla perfezione. In quei casi cercavo sempre di riprodurre ogni singolo gesto e suono, cercavo persino di ricordare la quantità di saliva che avevo sputato e la divinità tirata in ballo restava chiaramente la stessa. Non sempre funzionava. Anzi, funzionava poche volte.

Di solito, al tramonto si affacciava la nonna alla finestra di camera e stava lì ad osservarmi. Stava in silenzio, anche quando bestemmiavo. Non mi sgridava. Capiva che era soltanto un rituale. Aveva sempre un cenno di sorriso sul volto. Interrompeva il silenzio solo per dirmi “ Bravo brocciolone” nel momento in cui riuscivo a bocciare. Mi chiamava Brocciolone. La guardavo e le sorridevo. Mi faceva cenno che era pronta la cena. Scattavo di corsa, chè mi piaceva cenare.

Quell’estate terminò in fretta.
La nonna morì poco prima di Natale. Sul librone delle condoglianze scrissi “ Ciao nonna, firmato Brocciolone”.

Durante l’estate del 1990 non andai mai a vedere giocare il Maestro Remondini. Non toccai neppure le mie bocce di legno. Erano bellissime ma mi facevano piangere.
Mio padre continuava a non volermi dare mai ragione.
Mia madre era diventata più triste.

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