mercoledì 20 maggio 2015

Antonio Giordano - Salvuccio

Non faceva nessuna fatica a star piegata. In fondo era diventata la sua posizione naturale: quel contatto con la terra si coniugava con una corrispondenza di nascita e di crescita che pareva fosse una gratitudine d’amore che le zolle le tributavano attraverso crescite rigogliose. 
Era robusta e forte Lilla. Ormai sui trentacinque anni, il suo corpo bruno si era talmente abituato alla cura che lei aveva per la sua “Manta” che le pareva di esserne parte integrante e indispensabile.
Quella vasta estensione di terra l’aveva chiamata così perché dalla collina che le stava dietro appariva come una coltre di verde variegato e una volta una sua amica che veniva dalla città le aveva detto sorridendo che sembrava, una coperta, una manta, come si diceva nel  loro dialetto.
Lilla viveva quasi esclusivamente là, per la terra, diventata la sua creatura preferita. V’erano ortaggi e coltivazioni di ogni tipo a cui lei aveva riservato zone ben delimitate, specie di quadrati, come quelli di una scacchiera, dove vegetavano prodotti diversi. Dalla Manta Lilla ricavava tutto: soddisfazioni, disappunti, aspirazioni, compiacimenti e delusioni. Tutto dipendeva dalla corrispondenza fra la cura che ella metteva nel coltivare quelle che lei considerava sue creature e le risposte di rigoglio o, talvolta, di stenti e di rifiuti che venivano da quelle scacchiere.
Periodicamente veniva a trovarla don Ciccio che le comprava i “pezzi” migliori per rivenderli al mercato o allo “scaro”. Pagava anche bene don Ciccio, ma aveva un modo di scegliere la merce che la indispettiva un po’ perché per lei tutte le sue piante erano uguali, solo che avevano bisogno di cure diverse. Ma questo don Ciccio, che pur era una brava persona, non poteva saperlo, prigioniero della sua mentalità di commerciante. Del resto Lilla non poteva lamentarsi. La terra era buona e la Manta, che era piuttosto grande, si comportava bene sotto ogni punto di vista.
Una parte l’aveva ereditata dai suoi genitori e l’altra che stava più in fondo era stata di Salvuccio, suo marito, con il quale avevano condiviso non solo la terra ma anche il tetto coniugale e un amore intenso e leale. Finché …
La sera, specialmente in primavera e in estate, Lilla e Salvuccio si sedevano a guardare il tramonto nello spiazzo davanti alla casa ed era lì che il marito la affascinava col racconto di Paesi lontani, di nature diverse, di modi fare e di vivere che sapevano più di fiaba che non di racconto. Era un sognatore Salvuccio e Lilla, immersa nel lavoro durante la giornata, pregustava la dolcezza dei tramonti e lo schiudersi della fantasia ai racconti di Salvuccio che le teneva la mano.
Si era tanto abituata che quando al sabato il marito andava in paese per fare bisboccia e bere qualche bicchiere con gli amici, non soffriva ma lo aspettava, pregustando un’altra specie di contatto più intenso, fisico ma non solo, che appagava i suoi sensi e l’empito d’amore che provava per il suo  uomo. Aveva un odore aspro, inconfondibile il corpo di Salvuccio,  sentore che la inebriava e che lei cercava di rivivere con l’immaginazione quand’egli non c’era. Poi, quel mattino.

Era domenica. Salvuccio la sera prima aveva fatto l’amore con lei. E ora, come in ogni giorno festivo, Lilla si attardava nelle coltri aspettando che il marito si svegliasse per stare a chiacchierare un po’ con lui o magari, come spesso succedeva, per ripetere e continuare quell’atto d’amore che li aveva visti uniti la sera prima. Ma quel mattino non sentì l’odore del marito, per quanto lo cercasse intensificando il senso dell’olfatto. Nel grande letto cercò con la mano il suo corpo ma non lo trovò. Chiamò prima adagio poi più forte. Silenzio; non rispose nessuno. Cercò per tutta la casa, poi andò sullo spiazzo e con vigore e con la forza della disperazione inondò del suo richiamo tutta  la Manta. Nessuno le rispose. Lilla si sedette, allora, per terra sull’aia e pianse tanto.
Capì, però. Salvuccio aveva voluto raggiungere gli spazi dei suoi racconti, i luoghi variopinti e animati che avevano riempito la sua giovinezza e aveva cercato di ritrovarla in un altrove a lei sconosciuto, quella sua purezza giovanile. Si alzò e decise. Non l’avrebbe cercato il suo Salvuccio. Perché imprigionarlo nella routine quotidiana, fatta di cose piccole e limitate? Perché tarpargli le ali in un volo teso a una libertà sognata e finalmente realizzata? Non andò dai carabinieri a denunciarne la scomparsa. Aveva capito che il suo mettersi da parte doveva essere il suo vero atto d’amore nei confronti di Salvuccio.
E così aveva continuato a coltivare la sua terra pagando Amehd  e Lumban, due nigeriani clandestini, che talvolta l’aiutavano a curare le coltivazioni della Manta. Tutto questo rimuginava nel ricordo Lilla mentre accudiva e curava le sue piante. Giù, in fondo, quasi al confine, vi erano delle grosse siepi che servivano a proteggerle dalle improvvise folate di vento. La parte destra della Manta, però, avrebbe richiesto magari un albero che frangesse certe ventate che venivano talora da quella parte. Don Ciccio le aveva promesso che le avrebbe portato un alberello di pesco che, cresciuto, non solo avrebbe dato buoni frutti, evitando anche gli inconvenienti che lei lamentava.
Proprio quella mattina l’aveva chiamata per dirle che l’aveva trovato e che, caricandolo sul tetto della sua macchina, glielo avrebbe portato in giornata.
Ora bisognava scavare e preparare il terreno che avrebbe dovuto accogliere le radici. Lilla andò fino alla casa, prese una vanga e cominciò a scavare  con vigore, senza aspettare i due aiutanti che magari non  sarebbero venuti. Ad un certo punto la vanga trovò una specie di resistenza. Forse una  pietra o un masso che bisognava rimuovere, pensò la donna e con il piatto della vanga cercò di accertarne la natura. Le venne un colpo al cuore quando le parve di scorgere una testa umana, un teschio. Fu presa da una specie di frenesia e, abbandonato il suo strumento, si gettò nella buca e continuò a scavare con le unghie. Piano cominciò a delinearsi un corpo, uno scheletro. La camicia a quadri di Salvuccio, ora macchiata da una specie di siero marrone, i suoi pantaloni di fustagno, gli stivali neri e poi nell’osso rinsecchito dell’anulare sinistro il bagliore giallastro di un anello. Quasi impazzita Lilla tolse la fede dal suo di anulare e la mise accanto a quella dello scheletro. Corrispondeva. La tolse da quel dito e trovò che le date incise erano identiche. I vestiti emanavano un odore di marcio stantio, resi incrostati e sporcati dal tempo e dalla terra.  Quattro anni, quattro anni erano passati da quando Salvuccio era scomparso. Che aveva fatto, dove era andato, perché e come era morto? Lilla impazzì, si mise a piangere e a gridare stringendo poi quell’ammasso di ossa, cercando di ritrovarvi il perso odore aspro del suo Salvuccio. Ma invano. Corse verso la casa, prese il ”vespino” che era stato del marito, con il quale si recava talvolta in paese, e vi si precipitò.
I carabinieri la ascoltarono con pazienza, poi, accompagnati da Lilla che piangeva come una fontana, andarono a prendere il corpo di Salvuccio per gli accertamenti di rito.
E qui cominciò per Lilla una sorta di calvario. Interrogatori a non finire sui rapporti fra lei e il marito, sulla ricostruzione di quel giorno di quattro anni prima, sul perché la donna non avesse denunziato la scomparsa di Salvuccio. Il giudice per le indagini preliminari chiese che Lilla, sospettata di omicidio, fosse rinchiusa in carcere al fine di non inquinare le eventuali prove. Il cadavere di Salvuccio fu portato a Palermo per approfonditi esami autoptici ma a distanza di quattro anni non si riuscì ad appurare come fosse morto e perché. Non vi erano segni di ferite da taglio né di proiettili e nemmeno si poterono ravvisare segni di soffocamento o di percosse.
E allora? Lilla, dopo parecchie resistenze, si convinse a farsi assistere dall’avvocato Munafò inviato da don Ciccio che credeva nella sua innocenza. Munafò cercò di mettere le cose a posto: non c’era alcuna prova a carico di Lilla, nemmeno indizi. Del resto le cause della morte di Salvuccio non potevano attribuirsi a niente di concreto e pertanto nessuna responsabilità poteva emergere a carico di Lilla. La donna, peraltro, aveva ampiamente parlato dei sogni ad occhi aperti del marito e delle sue aspirazioni a recarsi in luoghi lontani, magari immaginari.
Del  resto se Lilla fosse stata colpevole non avrebbe denunziato la scoperta del cadavere dopo quattro anni, smuovendo delle acque che, fino alla sua denunzia, erano rimaste chete. Dopo altre domande, sopralluoghi e inutili ricerche di prove di colpevolezza sua o d’altri, Lilla fu prosciolta.
Le porte della “Casa circondariale”si aprirono per lei in un bel mattino di sole e la donna respirò a pieni polmoni l’aria della ritrovata libertà.
Sullo spiazzale la aspettava il fedele don Ciccio per riportarla a casa con la sua vecchia automobile.
“Eccoti finalmente libera”, esclamò contento.”E ora cerca di dimenticare questo brutto periodo”,  le raccomandò.
“Non temere”, rispose Lilla con un largo sorriso.”Per mia fortuna io riesco a cancellare le cose brutte. Così vivo più serena. Non ti pare?”
E già, già” borbottò Ciccio perplesso, storcendo la bocca.
Le fu restituito il corpo del marito. Religiosamente la donna lo rimise nel posto in cui l’aveva trovato pensando che Salvuccio, magari, aveva trovato lì la sua pace e il sogno di quegli orizzonti agognati per tanto tempo.
Qualche giorno dopo nel vialetto che conduceva alla Manta don Ciccio tornò con l’alberello di pesco legato sul tetto della sua auto. Si dissero poche parole; di ringraziamento lei, di conforto lui. Poi Lilla andò a piantare da sola l’alberello, anche se le costò un po’ di fatica, ma non volle condividere con nessun altro quel suo rito. Curò la pianta in modo particolare e le sue attenzioni dettero i loro frutti e non solo in senso metaforico. In estate l’albero, ormai cresciuto, era punteggiato da dolci sferette di color rosa pallido. Amehd e Lumban nel congratularsi con Lilla vollero assaggiare quelle pesche. Avevano la morbidezza delle “spaccarelle” e la dolcezza delle “montagnole”.
“Ma è una razza di pesche tutta nuova”, esclamò Amehd con la bocca piena. “Come le chiamiamo, signora?”
Lilla ne prese una e la morse: “Le chiameremo pesche salvucce” e continuò a masticarle, gustando quell’aspro sentore del marito che lei non avrebbe mai dimenticato.                

Nessun commento:

Posta un commento