domenica 8 giugno 2014

Valentina Fenu - EternaMente (Il tempo obbedisce all'amore)

Il treno pullula di mille persone, racconti e avventure da dire e annuire.
Non ho voglia di assorbirli; ho le orecchie ancora ovattate dalla melodia delle onde che si infrangono a riva e persino lo stridio delle rotaie è più doloroso che mai.
I corsi sono ripresi e gli uffici riaperti: a settembre la vita riparte – e pare un paradosso visto l'avvicinarsi della stagione letargica – e la massa è un fiume che corre al mare, lì, all'apertura delle porte automatiche con il conseguente slalom per accaparrarsi i posti prediletti.
I vagoni profumano di nuovo e l'aria è troppo fresca, al punto che le donne che fino a qualche istante prima esibivano i segni dell'abbronzatura con scollature da capogiro, ora si arruffano in gigantesche sciarpone.
“Fortuna ho il posto corridoio, da qui guardo l'intera umanità!”.
Poco più avanti, alla fermata successiva, si è seduto lui; non è bello e a tratti può apparire banale con quei jeans scoloriti e la polo grigia da bravo scolaretto fuori età, intento a sbranare le pagine del libro che tiene in mano.
Lo guardo fugacemente – no, in realtà lo fisso un paio di volte ma lui non accenna a scostare lo sguardo – e mi rituffo nella scoperta dei pendolari: un gruppo di segretarie cattura la mia attenzione per il tono di voce sostenuto, rivolto a stupide storie di liaisons amorose di poco conto; accanto a loro, due ragazzini in apprensione per il primo giorno di università si prolungano in discorsi ansiosi ed entusiasti e... oh no, ancora lui.
Lo osservo e no, non è interessante né affascinante. No.
Però lo guardo e mi perdo liberando centinaia di pensieri.
- “Che tipa strana, e dire che non smette mai di stupirmi nonostante sia passato un secolo di mari, albe e tramonti...”
- “Mi sta guardando, che figura! Penserà che sono una curiosa o peggio ancora una facilona!”
La mente vaga, ma il fischio del treno inesorabile ci riporta alla realtà: il timido sole di Milano sorride e in Cadorna c'è un buon profumo di dolce appena sfornato. Lentamente il serpente di folla si srotola verso i tornelli, e poi in corsa per le scale della metro e le fermate dei tram; lo perdo nel visibilio del caos e una sensazione di mancanza mi pervade “Ripigliati!”.
Mi intrufolo in un bar vicino allo Sforzesco
“Cappuccio, treccia al cioccolato e un po' di buonumore”, il barista ride e inizia una nuova giornata.
Arrivo presto in stazione stamane; senza volerlo ho anticipato la sveglia di mezz'ora e mi sono preparata con cura – forse l'ultima volta che ci misi tanto fu in occasione del colloquio che mi lanciò poi nel mondo del lavoro.
“Cinque minuti di ritardo, maledizione al tabellone luminoso! Dovrebbero toglierlo, non sanno che accrescono l'ansia?”: la mia tensione cresce, in ufficio arriverò puntuale perché so di prendere sempre la corsa precedente all'orario di inizio, così che io possa gustarmi una fettina di città prima di rinchiudermi sulla scrivania per otto lunghe ore; eppure devo sedermi al più presto su quel sedile bianco e blu.
Ciuf ciuf,
sospiro di sollievo. Corro veloce, medesimo posto di ieri e vorrei lanciare la mia borsa su quell'altro sedile...oddio. “Perché?”
Credo di essermi decisamente fatta un viaggio mentale, quale sedile e per chi? “Stai serena e smettila!”.
Un istante più tardi in tale posizione una ragazza con gli occhiali troppo grandi per il suo viso è intenta a sfogliare una rivista di moda e una morsa allo stomaco mi irrigidisce.
Lui non si siederà al “suo” posto; a me poco importa – oggi ho un'importante riunione cui assistere – devo concentrarmi sul planning della giornata.
“Scusi signora ” una voce chiara e profonda si rivolge ad una bella donna in carne cui è stato urtato un braccio, nel tentativo di passare nel corridoio.
Lui è apparso, stesso posto stessa ora.
Mi guarda e lo guardo.
Un tramonto sul mare; non un mare, ma il mare nostro. Nostro.
E' un corso di cose ineluttabile, ci metti una vita e tutti i viaggi del mondo a capire qual'è; sempre lì, nel tuo cuore, mai lontano dai sogni. Ma hai attraversato i continenti e l'hai violentato mica da ridere per riconoscerlo.
Uscimmo di casa coi costumi sgualciti da un pomeriggio di sonno, qualche birra e il cuore impazzito: il paese era deserto, l'estate che fino a pochi istanti prima pareva incalzante si era spenta alla rapidità di un soffio perché la brezza aveva spazzato via il tepore.
Eravamo avvinghiati in un abbraccio, e credevamo fosse per sempre; il tramonto ci si scaraventò addosso: non te lo immagini che in quattro occhi ci possa stare tutta quella pienezza. Quattro occhi, due mani bene incastrate e un cuore, il che sfugge a qualche calcolo logico della matematica.
L'acqua fresca ci sfiorò le caviglie e solo l'orizzonte sancì un confine tra quelle distese azzurre e dorate e arancioni di aria e mare, ma non ne definiva mai la fine: e allora ridemmo, sentendoci parte di quell'infinito.
Cadorna, ancora una volta.
Intorpiditi, ci incamminiamo in due direzioni diverse, .
La settimana si sviluppa indolente, le vacanze hanno giovato allo spirito e al corpo, ma qualcosa non torna.
Da qualche mattina - precisamente da martedì - mi relego all'odiato posto finestrino e fisso il paesaggio che scivola: dalla Brianza alla città, i contorni  frastagliati di monti e alberi si appiattiscono pian piano in rigide rette di tetti e cemento; l'aria condizionata non funziona e avverto caldo in questo vagone semideserto: è sabato e chissà in quanti saranno a casa arrotolati in morbide lenzuola.
Devo rendere un mazzo di chiavi alla mia collega, domani dovrà preparare una conferenza e sarà in ufficio da sola – certo, di domenica dal momento che vuole far colpo sul capo. Ci incontriamo sui binari, è sbrigativa e d'altra parte non ci siamo mai fiutate troppo.
“Dai prendiamoci almeno un caffè insieme! ”, ma non può.
Mi stupisco di averle chiesto un caffè: è una sorta di rito che condivido con poche persone che amo aver presenti nella mia vita.
Sorrido da sola; un lapsus? Un'emergenza di compagnia?
Penso a lui e non devo, allora provo a buttarmi nel mondo.
Mi piace la vivacità della stazione: gli accessi ai binari ricordano giochi di bambini, quando ci si infilava sotto i tornelli girevoli del banco frutta al supermercato e le mamme arrabbiate ci inseguivano coi carrelli.
Un po' bimba mi ci sento ancora: cresciutella e con una buona dose di maturità, ma con ancora intatti quella spontaneità e quell'attaccamento alla vita tipici dell'età dell'innocenza.
L'orologio piazzato in alto suggerisce che posso prendermi del tempo per me; mi accuccio ad un tavolino bianco del baretto sul binario 1; un caffè americano in mano, la mente pronta e gli occhi sgranati.
Arriva un mezzo e si ferma davanti a me; posso scorgere il gancio d'acciaio che somiglia ad una boa arrugginita che pare voglia dire “Eccoti finalmente, riposa un po'!”. C'è qualcosa di magico nell'arrestarsi del treno al capolinea; la corsa è bella ma solo quando c'è un posto dove andare, come le barche che per quanto possano navigare e scoprire nuovi mondi, necessitano di attraccare in porto e sentirsi al sicuro.
I visi sono spettacolari, alcuni corrucciati, altri felici, altri pensierosi: l'umanità è un film incantevole da guardare.
Decido di tornare a casa: in pochi minuti sono seduta sulla seconda carrozza del treno – vecchio, che alcuni definiscono “storico”, nel tentativo di giustificare la scomodità delle panchine in similpelle bordeaux orribili e i finestrini imbrattati – e un lieve sonno mi consente di chiudere gli occhi, pensando a lui.
“Sto veramente esagerando, pensare a chi? A cosa? ”, ripiombo coi piedi per terra; il treno è ancora fermo, certo, sono salita venti minuti prima della partenza, e ci metto qualche secondo a focalizzarmi sul vagone, sull'odore acre dato dall'ambiente demodè e ammutolisco.
Ero già in silenzio. Si ammutoliscono i pensieri, ma solo per un lampo perché il caos della mia mente ha inizio e mi sconnette dalla realtà: lui è lì, di fronte a me.
Un tranquillo sabato mattina mi sta privando di una funzione involontaria quale il respiro.
-“La vedo sconvolta, più che mai. Che non sia serena? Che non rammenti dell'ombra sotto la pianta di fichi? ”
-“Mi Legge l'anima.”.
C'è una pianta di fichi, proprio fuori le mura e profuma l'aria di una gioia antica. Sovvengono immagini di una città in costruzione, con pietre forti, rosse e ottocentesche.
E cavalli, vesti, giocolieri e messaggeri in festa alla venuta del Re.
La stazione maestosa si erge tra i palazzi e il vetrocemento: la frenesia e l'impotenza degli uomini simili a formiche nel subbuglio della metropoli.
Il tempo fottutamente veloce, le lancette impazzite e poi la sorpresa: si apre un cancello proprio a pochi passi da quel confluire di cose e l'aria si colora vivace di un profumo gentile.
La mente va alla discesa verso il mare, sentiero assolato e a tratti ingiallito delle nostre vacanze sarde, quando ci fermavamo mille volte a raccogliere fichi; il profumo saldamente ancorato nel cuore più dei tatuaggi che ora ornano i nostri corpi seduti qui uno di fronte all'altro su due panche imbottite di un vagone che ci inonda di energia.
E' un istante: la scoperta della pianta di fichi nel cuore di Milano ci sorride, ci prende l'anima tutto appare ora - come allora, in quella vacanza - vivido e fiammeggiante.
E non esiste tempo.
L'altoparlante indica che manca una fermata alla sua.
Non so chi sia, ma abbiamo qualcosa che ci lega; si accende una luce e si sprigionano immagini di noi nel mondo: amanti sotto le stelle di New York, e poi mano nella mano lungo i corridoi dalle Alpi ai Pirenei, e ancora insieme in un dolore lontano sulle sponde di un triste Tevere.
Stiamo vivendo questa e altre innumerevoli vite scandite dallo sferragliare delle rotaie.
Non parliamo.
Eppure ci raccontiamo di universi che sono vissuti attraverso di noi.
La sua fermata è arrivata, ma non scende.
Le porte si richiudono.
Tra 5 minuti sarò confusa, dovrò scendere, non riuscirò a continuare la corsa così.
Che senso ha? Mi distraggo pensando alla mia collega e al caffè.
Lo guardo e mi fissa; devo dirglielo, ora o mai più: io tra due giorni non prenderò questo treno, e chissà se lo sa di già; andrò al Sud. Mi sento stupida, ma devo farlo; ho voce per gridare molte lotte ma ora ho paura.
Già, ma la paura è fatta di niente; mi faccio coraggio:
“Perché non ci prendiamo un caffè?
Potremmo fermarci in quel vecchio bar, io mi sistemo un attimo in bagno e arrivo in ritardo come accadde già quella volta di molto tempo fa e tu mi aspetti, come fai ogni mattina sui binari guardando fiducioso all'orizzonte l'arrivo del convoglio; ci beviamo un caffè e ci guardiamo, dicendoci che va tutto bene.
Ho voglia di sentire il cuore che batte impazzito, e magari la finiamo con questa pazzia.
Ci prendiamo questo benedetto caffè e la chiudiamo qui.
Ho voglia di guardarti fisso negli occhi prima di salutarti; dritto in questi occhi caldi e scuri come il caffè che dovremmo bere perché in fondo vorrebbe dire 'dai, passiamo il resto dei nostri giorni insieme'.
Immagino l'abbia capito, non mi sembri così distratto.
Certo non so i dettagli, come il tuo nome ad esempio, ma suppongo che il caffè ti piaccia, dato che io ne vado matta, e parimenti non ti piacerebbe perderti da qui all'eternità, se non nelle mie mani.
Insomma, perché non ci prendiamo un caffè?”
Il treno frena, in fretta;
le porte si schiudono, a forza.
Mi alzo e non fa altrettanto.
Balzo giù dalle scalette, sentendo già gli occhi riempirsi e le guance bagnarsi.
Ciuf ciuf,
i vagoni sfrecciano e resto immobile sulla banchina, il tabellone spento e le panchine deserte.
Certo, la vita non sempre è come ce l'aspettiamo, vorremmo fosse una sfera e invece è un cubo e gli angoli fanno male a volte.
Cosa ti aspettavi? Le favole del “vissero felici e contenti”?
Mi accingo ad attraversare i binari, nel solito tragitto, molto più pesante che mai; in testa mi balena una canzone che cantavamo da ragazzini “ma il treno dei desideri
nei miei pensieri all'incontrario va”, mi rattristava allora e di più adesso.
Un brivido sulla spalla sinistra; il tocco di una mano e prima ancora di voltarmi:

“Mi chiamo Federico e mentre ti sistemi, ordino due caffè lunghi come il nostro tempo e ti aspetto, come faccio da una vita e più. Che ne pensi?”.

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