lunedì 2 giugno 2014

Sara Agnetti – Ho perso il mio tempo

Non è così facile e immediato, ma quasi tutti prima o poi si arriva a capire che il miglior modo per comprendere a fondo l’importanza del tempo è perderne. Così decisi di mettermi in marcia, quasi senza meta, solo godendo degli incontri e di tutto ciò che mi aspettava sul cammino.
Ho perso tempo ammirando la geometria perfetta delle nocciole incastonate nella tavoletta di cioccolato, e godendo di come per una volta le fotografie sull’involucro colorato non ci ingannino. Ho capito a fondo la differenza tra le banane di Tenerife e quelle cresciute in tutto il resto del mondo. Ho scoperto che nel deserto dell’Arizona piove molto poco, e che in quelle rare occasioni nessuno esce di casa. Ho riflettuto sulla vita militare, su come tempri il carattere di chi la vive, passando il resto della propria vita a calcolare distanze, altitudini e medie orarie. Spesso non ci rendiamo conto del lavoro importante di chi passa anni della propria vita a cercare di far nascere bimbi sani da madri malate di HIV in Zambia. Cani schivi mi sono saltati addosso, facendomi la festa mentre mangiavo una banana in riva al fiume. Altri cani mi hanno portato via la buccia di quella stessa banana, perché affamati ed impauriti dallo straniero che si era seduto sulle pietre delle loro strade. C’erano anche campi coltivati a mappamondo, ogni cespuglio un confine di stato, ogni foglia una frontiera, non senza imperfezioni e omissioni. Gente che veniva dal sud mi ha insegnato come riconoscere le coltivazioni di asparagi e me ne ha illustrato l’importanza economica. Ho trovato paesi vuoti, senza bambini per le strade, paesi destinati ad una triste riurbanizzazione per villeggianti annoiati dalla città, pronti a costruire l’ennesimo inutile campo da golf. Ma in quegli stessi paesi c’erano anche giardinieri simpatici, con tanta voglia di parlare e pronti ad offrirti un passaggio fino al centro. Bevendo le acque senza garanzie sanitarie, ne abbiamo scoperto l’inutilità. Attraversando chilometri di niente, a volte sono usciti mostri strani dalla testa, mostri fatti di volti che avevo dimenticato, mostri in costume da bagno che leggono il Vangelo secondo Giovanni. Se ti trovi solo con i tuoi piedi, con il vento, con una strada senza inizio né fine, puoi ritrovarti a ringhiare come un animale ferito, ad arrabbiarti con la terra e con ogni sasso che calpesti, per poi piangere di rabbia per il male che hai fatto uscire e che non sapevi di avere dentro. Qualche birra più tardi, ringrazi la vita per i compagni di gioco che ti regala, per quello stesso silenzio che poco prima avevi maledetto, per questo tramonto che non ha fretta, per la lucertola che ti guarda senza rancore. E poi capita di incontrare qualcuno che vuole donarti amore, perché di più non si può fare, che ti insegna a volerti bene nonostante i fallimenti, che ti legge dentro senza conoscerti, che piange con te e si commuove per quanto belle sono le lezioni della vita, che arrivano quando meno te lo aspetti. Ascoltare il proprio corpo. Siamo così poco abituati a farlo, in un mondo che ci chiede di più, che non ci vuole mai statici e che ci spinge ad andare sempre più in là. Se ci rendessimo conto di quanto è bello a volte fermarci! Hai mai ascoltato il suono delle tue caviglie? Hai mai toccato la linfa fuoriuscita dal tuo corpo? O non ti sei mai nemmeno accorto che era uscita? Una volta un prato mi ha chiesto di essere calpestato. L’ho sentito che mi chiamava per nome, ogni filo d’erba si è inchinato ad onorare il mio arrivo, gli insetti si sono spostati per prepararmi un letto tra le foglie e la sabbia della clessidra si è fermata. Le nuvole danzavano per me, il vento è arrivato ad asciugare il mio sudore e il sole mi ha regalato luce e calore per illuminarmi il viso e scaldarmi la pancia. Tutti si sono fermati per non disturbare, non mi stupirei se venissi a sapere che anche il mondo ha smesso di girare. In quell’istante pensi alle persone care e a quelle che ancora non conosci e ti senti in pace con loro e con te stesso. Vivere un momento così è in parte fortuna, ma anche tu puoi farlo, anche tu con il doppiopetto blu che spingi per entrare in metropolitana e maledici il wi-fi per il cattivo segnale. Ci sono stati dormitori a tre pareti che ci hanno fatto dormire mentre comandava il freddo, e a volte ho invocato il dio delle tubature per portarmi un po’ d’acqua calda. I gatti si sono presi gioco di me, dispensando fusa e lasciandomi sola una volta che ho dato loro da mangiare. Eppure, quando mi sono girata, loro mi stavano salutando con un miagiolio lontano. Le panchine hanno sopportato il mio peso e il fruscio delle mie borse piene di frutta. Le campane mi hanno salutato a festa, a lutto e anche un po’ a caso. C’erano galline che mi anticipavano sulla via, senza scarpe ma con il cappello in testa. Vacche felici mi hanno guardata con aria di superiorità, come se loro avessero capito tutto della vita e io facessi loro un poco di pena per il mio essere piccola e povera. Ho letto la semplicità sul muro di una casa diroccata. Ho parlato con un manichino vestito a festa nel bel mezzo del nulla, mi ha raccontato di quella volta che un gitano gli ha offerto una fetta di anguria in cambio di una sonata di fisarmonica. I trattori mi sono passati vicino indifferenti al mio dolore, al mio desiderio di parlare con qualcuno, alla mia mancanza di lucidità. Ci sono stati asini che mi hanno insegnato cosa significa veramente partire, impacchettare la propria merda e andare via. Una bottiglia di vino mi ha permesso di conoscere la vita segreta dei tori dell’Andalucia. Il pesce nel piatto mi ha sempre guardato con terrore. Nei boschi di eucalipti ho spesso sentito il richiamo dei folletti. Cavalcavano grossi ramarri verdi dal corpo sproporzionato e scacciavano i lupi dal sentiero degli umani. Con un po’ di impegno, si possono ancora vedere le tracce sul terreno delle carovane dei secoli passati, con le vesti medievali e i cavalli stanchi. Attraversando mille fiumi, i pesci persici hanno ballato la danza della pioggia, ho lavato gli stivali e ho cantato con le rane, che quando vogliono sanno essere assordanti e beffarde. Ci sono state persone che hanno voluto abbracciarmi e baciarmi senza conoscermi, ed io, un po’ stupita e non certo abituata, mi sono lasciata attraversare dalle loro solitudini, dalle parole non dette e da quello che ho potuto solo percepire in fondo alle loro menti. Ci sono tante delusioni, tante vite da raccontare, storie straordinarie per la loro semplicità, ci sono tante persone con così tante cose in comune che a volte per condividerle basta uno sguardo. Le parole sono a volte sopravvalutate, quando qualcuno inizia una frase e tu sapresti già come terminarla. Ho pianto lacrime che giacevano da anni sepolte in piccoli laghi dietro i miei occhi, si erano accumulate e finalmente sono uscite. Le ho asciugate con i polsi e qualcun altro le ha asciugate per me, convincendo un gregge di pecore a pascolarmi intorno. Ci sono state attese reciproche, baci sognati, calzini bucati. C’è stata la pazzia di ballare il tango con uno sconosciuto che scrive con le venti dita e che ride con tutto il corpo, di un’allegria che ti inonda come un’improvvisa alta marea. Lanciando i dadi sono state mosse pedine e ci siamo mossi noi, in un gioco dell’oca disegnato sulla pietra. Ci sono stati messaggi nascosti sulle piastrelle davanti ad una fontana, cartelli non visti, poesie non lette e legate alle zampe di un piccione viaggiatore. Se per un attimo ho avuto paura, ho pensato a preparare il caffè. Se per un attimo ho avuto freddo, ho guardato le foglie tremare. Ho avuto anche paura di amare. Ho aspettato lui come si aspetta l’alba per conoscere i sogni del mattino, fino a quando un lombrico con gli stivali da pioggia e il dolcevita mi ha suggerito di andare a prendere ciò che mi spettava e che mi aspettava. Il vento soffia sempre da nord. Un gatto rasato mi ha rubato la seggiola e un signore di pietra che si teneva il cappello mi ha indicato la via. I vecchi mi hanno insegnato parole di una lingua lontana, terre lontane dove tuttavia sono riuscita a trovare una bottiglia di lambrusco. I cavalieri templari sono tornati dal passato per mostrarmi la mappa segreta della città di ferro, e ho potuto rivedere l’avanzata saracena e la partenza per le crociate.

Ho perso così il mio tempo, sognando tutto questo dal letto della mia stanza, con un pigiama a righe e il mal di stomaco.

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