lunedì 2 giugno 2014

Gianantonio Dolfin - Molto tempo fa... Sul torrente

Capita a tutti di ritrovare, in fondo ad un cassetto, non perlustrato da molto tempo, qualche piccolo oggetto del quale ci si era completamente dimenticati, o che si riteneva perduto. Recentemente a me è capitata la stessa cosa: si tratta a di una foto di mia mamma, che, non so per quale motivo, non era stata inserita nell'albo al posto che le competeva.
Lieto per quella scoperta, la guardai a lungo: mia mamma appariva seduta su di un grande sasso, sorridente e guardava lontano. Pensandoci, ricordai che era sua abitudine recarsi, assieme a me e a mio fratello, alla riva del torrente, non molto lontano dalla nostra casa di montagna. Giunti sul posto, mentre noi si giocava con i piedi nell'acqua gelida, lei saliva, quasi con l'abilità di un rocciatore, in cima a quella cattedrale di roccia per godersi il sole, ed è lì che un giorno la fotografai.
Erano tempi che a me oggi sembrano bellissimi, ormai lontani, irrecuperabili; tempi a dir poco sereni, senza malvagità, irruenza, brama di possedere. Con un sospiro riposi la foto là, dove l'avevo ritrovata, senza accompagnarla alle altre, testimoni dei nostri ricordi.
Non so perché lo feci, forse perché ormai quel posto in fondo al cassetto era suo. Passarono i giorni, pensai ad altro, ma una sera presi nuovamente in mano quella foto, ripromettendomi di tornare lassù: volevo ritrovare quel masso che, date le riguardevoli dimensioni, non poteva che essere ancora lì. Salii in macchina e partii. Viaggio regolare, traffico scorrevole. Poco dopo mezzogiorno ero alle porte del paese, dove non andavo da oltre cinquant'anni. Mi fermai: tutto era cambiato e il posto quasi irriconoscibile. La strada, ora ovviamente asfaltata, si addentrava in doppia corsia. Tutto era più largo, più imponente. Le vecchie case, abbattute, avevano lasciato il posto a moderni edifici, soprastanti profonde arcate, dove si poteva passeggiare lontano dal traffico automobilistico. Negozi, un tempo inesistenti, attiravano con le vetrine illuminate. Mi fermai qualche centinaio di metri all'interno del paese, ma che dico, della città. Parcheggiai ed entrai in un bar. Ero nervoso, impaziente; meditavo su quale strategia attuare per raggiungere il torrente: incamminarmi, scoprendo tracce della vecchia strada, soffocate da tutte quelle modernità? O più semplicemente farsi dire dal barista la direzione più breve? Ero proprio incerto, non sapevo esattamente cosa fare. Bevvi un caffè ed uscii.
Il sentiero è quello di un tempo, in terra battuta, sinuoso tra i verdi prati. Lei forse è davanti a me e ha già raggiunto il luogo dell'incontro. Asfalto e moderne case sono scomparsi. L'improvviso mutamento del luogo e del tempo, non mi stupì troppo, perché queste sono cose che capitano a me e a pochi altri. Quindi procedo, attento a riconoscere l'antico paesaggio: le case in pietra viva, le stalle in legno, i covoni di fieno, i falciatori, l'aria profumata , piena di sonorità familiari: canti di taglialegna, cori di donne, con le gerle cariche di erba medica. Tutto è come allora e provo una sensazione di quiete e di serenità.
Da qui la nostra casa non si vede, del resto l'ho esclusa dal mio programma di ricerca: ora bisogna andare al torrente. Avanzo senza esitare come avrei fatto allora; gli abeti dei boschi attorno, sembrano inchinarsi al mio passaggio.
Ora il sentiero mi porta proprio dentro un bosco. A un tratto mi sento chiamare alla mia destra: guardo in quella direzione e li vedo tutti lì: gli amici di quell'età. Sono in fila ad una quindicina di metri da me e mi salutano ridendo. Mormoro il nome di ciascuno, rispondendo con un altro caloroso saluto. In testa al gruppo c'è il mio amico del cuore che morirà poco dopo, senza avere il tempo di salutare nessuno. "Di là, di là!" indicano, sapendo dove sono diretto, poi, in silenzio, a poco a poco si allontanano. Non è un sogno: è la mia realtà, emersa da una forza interiore, capace di togliere al tempo la sua crudele ed inarrestabile corsa in avanti. Ora c'è silenzio, ed io cammino, certo di trovarmi vicino alla meta. Dopo una curva, so cosa avrei trovato, fuori del sentiero. Infatti è lì: la baracca di Nardin. Un uomo senza età e anche senza denti, che biascica tutto il giorno una lingua incomprensibile. Si dice che Nardin, un tempo, facesse il calzolaio. Ora non si sa come viva, ma forse non esisteva più e quella che vedevamo era la sua ombra.
Comunque sia, Nardin ora è lì, ma non mi vede, indaffarato attorno alle gabbie degli uccelli che lui
stesso cattura, con il vischio, su in montagna. Ricordo che ogni volta lo seguivamo: lui con passo lento, ondulato e lo zaino sulle spalle che si spostava ora a destra, ora a sinistra. Giunto sul posto, spettava a noi di sistemare i fuscelli unti di vischio. Lui beveva il suo mezzo litro e poi si addormentava. Gli uccelli catturati, alla fine, erano tutti nostri. Nardin, il tempo ti ha conservato tale e quale. Ora ti vedo, ma chissà quando ancora?
Superato il dosso, ecco il torrente. Ho il cuore in gola. Cerco di scorgere fin da lontano quel grande menhir e in cima mia mamma che senz'altro avrebbe rivolto lo sguardo verso di me.
Ma, quando meno me l'aspetto, il tempo compie un balzo, ricuperando la sua contemporaneità. Frastornato, vidi sì il torrente, ma era più largo di allora, il corso più regolare e, per di più, era stata costruita una grande ansa, per dare posto a nuove case. Scesi verso la riva sinistra. Un rumore insopportabile si era diffuso nella valle: grossi macchinari per i movimenti di terra, scavavano, allargavano, fendevano le sponde, aggredendo sempre più il quadro dei miei ricordi.
Vidi quello che doveva essere il capo cantiere. Mi avvicinai e tentai di parlargli. Questi sorridendo, chiudendo strettamente gli occhi e scuotendo la testa, mi fece capire che non sentiva niente. Entrammo in una baracca per il ricovero degli operai, e qui gli dissi chi ero e che cosa cercavo laggiù. "Un grande masso?" ripeté il capo cantiere. "Sapesse quanti ce n'erano in questa zona. Sono stati rimossi tutti; usando anche la dinamite per i più ostinati. Ormai non ne troverà più nessuno." Compresi, mi rassegnai e salutai quel cortese personaggio. In testa, oltre il rombo dei macchinari, mi ronzavano quelle parole: "Usando la dinamite per i più ostinati." Mi convinsi che quello che ospitava mia mamma, doveva essere stato uno di questi. Dove poteva trovarsi in quel tempo? Impossibile stabilirlo, in considerazione dello sconvolgimento della geografia di quel luogo.

Raccolsi un ciottolo levigato, tondeggiante, che, a ben guardare, qualche somiglianza in miniatura, poteva avere con quel grande, antico altare. Poi, rassegnato, mi diressi al parcheggio e salii in macchina.

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