lunedì 2 giugno 2014

Alfredo Bossetti – La voce del vento

Una bellissima giornata di primavera, nel tratto di mare dove le rovine medioevali di un’antica civiltà si affacciano su un promontorio meraviglioso, imponente, quasi mistico. Un’altura dalla quale lo sguardo riesce a dominare chilometri di costa caratterizzata da una vegetazione tipica delle zone del centro Italia bagnate dal mar Tirreno; un dono della natura, un regalo giunto fino ai nostri giorni dopo aver attraversato secoli di storia travagliata, dopo aver conosciuto guerre, lotte, dolori, morte; ma anche cuori innamorati, sognatori, spiriti liberi, artisti: menti ancora incontaminate dai pregiudizi del tempo, dalla confusione, dalla frenesia e che potevano essere plasmati dalla forza di quel luogo suggestivo, intriso di magia e di un alone di mistero, isolato, lontano dal tumulto e dal frastuono delle metropoli.
Tutte le volte che Raul riusciva a ritagliarsi qualche minuto dall’attività di falegname non vedeva l’ora di allontanarsi dal negozio in centro che gestiva con il fratello Lucas e raggiungere questo paradiso. Dalla sua casa gli ci volevano solo venti minuti in macchina, ma per lui, spirito indomito, impaziente, frenetico, sempre rivolto alla ricerca dell’obiettivo, sembravano ore.
Si cambiava di corsa, si lavava come un’anatra che si infila sotto l’acqua per risparmiare tempo: voleva togliersi di dosso la polvere, le schegge, ma soprattutto l’odore del legno: quell’aroma misto di fiori e muffa che lo accompagnava oramai da una vita. Prima il padre, che quando rientrava alla sera dopo una giornata in falegnameria e lo abbracciava tirandolo a se con le sue mani vigorose quasi lo soffocava, adesso lui e Lucas; nonostante l’evoluzione tecnologica dei macchinari, quello rimaneva un marchio di fabbrica che misurava l’autenticità della materia prima lavorata. Era convinto che gli fosse penetrato addosso al punto da non potersene più liberare, e nonostante si facesse un’abbondante doccia ogni giorno appena terminato il lavoro, quell’essenza non si allontanava mai da lui.
Generalmente non gli dava granché fastidio, ma quando saliva in quel luogo, ad un passo dal cielo, voleva sentirsi completamente libero: libero di sognare, di respirare a pieni polmoni l’aria frizzante ricca di profumi di paesi lontani, di chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dalla fantasia. Niente doveva rovinargli quell’idillio: fosse durato un solo minuto o tutta la giornata, voleva assaporarne ogni sfumatura, ogni impercettibile suono, alito, respiro.   
In quei momenti di solitudine, si metteva sdraiato sull’erba in un angolo poco distante dal parcheggio dove lasciava incustodita la sua auto; l’umidità della notte si era appena asciugata ma alcune tracce non erano ancora state cancellate dal tiepido sole che a fatica scaldava quel luogo. Solo dopo qualche minuto, in cui riusciva ad isolarsi completamente dal mondo, la sua attenzione era attratta dal lieve e fine rumore del vento che lì soffiava come Raul non aveva mai udito. Era una vibrazione quasi musicale, un insieme di voci e strumenti che all’unisono declamavano poesie, versi, liriche. Nonostante la giovane età, Raul, amava ricercare luoghi tranquilli e poco frequentati, dove fermarsi e ascoltare attentamente il mondo che lo circondava; ed in particolare il rumore del vento che vibrava tra le fronde degli alberi così come su una spiaggia deserta, sulle cime innevate delle montagne dove un soffio gelido ti taglia il viso e ti fa lacrimare gli occhi o nel deserto dove il caldo vento dell’Africa ti brucia la pelle e la sabbia ti costringe a coprirti il volto. Ma in nessun altro luogo aveva mai ascoltato la voce del vento come su quel promontorio.
Sarà stata suggestione o un particolare fenomeno acustico che ne esaltava i suoni armonici, ma nulla era paragonabile a quello che riusciva ad udire quando raggiungeva quel sito. Sembrava la voce celestiale di un cherubino che si rivolgeva a lui e di cui lui solo riusciva a capirne il senso.
A volte allegra, frizzante, innocente come il sorriso di un bambino che si schiude davanti alla sorpresa, all’estasi della novità, al mondo che gli appare per la prima volta e lo inebria con il suo fulgore. A volte malinconica, triste, sconsolata, come lo sguardo dei fedeli durante la processione del Corpus Domini la domenica pomeriggio. Sempre nuova nella sua monotonia, Raul si lasciava rapire e inebriare da quel canto: ogni volta che aveva un problema, che non sapeva quale decisione prendere e l’incertezza e il dubbio non lo lasciavano vivere; quando il consiglio degli amici non era sufficiente e non sapeva con chi sfogarsi o parlare liberamente; o anche quando voleva solamente stare con se stesso qualche minuto, sparire dalla realtà, entrare in una dimensione che fosse solamente sua. Per ritrovarsi, per riscoprire la parte migliore di sé, per esaminare il suo cuore. A volte ne sentiva il bisogno più che mai.
E il vento era sempre pronto ad accoglierlo, a riceverlo come il ritorno del figliol prodigo. Amorevole, attento, sensibile, non faceva domande, non si innalzava a ruolo di inquisitore, non gli chiedeva nulla. Raul ascoltava in silenzio, con un atteggiamento quasi religioso, di pura contemplazione. Quella voce gli parlava con un linguaggio semplice, con parole formulate appositamente per lui e che lo raggiungevano direttamente, senza artifizi o macchinazioni.
Una voce amica, che lo avvolgeva in una sorta di abbraccio protettivo e che lo cullava dolcemente: gli parlava di paesi lontani, di principesse bellissime, di terre dove magia e ricchezza confondevano la realtà in una sorta di oblio mentale, di allucinazione. E la sua fantasia correva fra castelli incantati, tesori da scoprire, damigelle da salvare. E tutto quello che aveva letto a scuola, tutte le favole che erano state tramandate da generazioni, prendevano corpo nella sua mente inspirate da quella voce guida.  
Certi giorni sembrava il richiamo di una madre premurosa, altri un coro celestiale che traccia il cammino della vita, altre ancora un orda di ragazzini che corrono dietro ad un pallone urlando il nome del compagno che è più vicino all’area avversaria per incitarlo e dargli la forza di non sbagliare.
In quel luogo il tempo passava velocemente e come sempre, nel momento di rientrare, una tristezza lo assaliva. Era forse per il dispiacere di non poter ascoltare oltre quella sinfonia, oppure per la paura di non poter ritornare il giorno dopo, o la consapevolezze che una parte di lui oramai si perdeva ogni giorno di più.
Gli anni passarono inesorabili, e le vicissitudini della vita portarono Raul a trasferirsi in un’altra città. Per quasi trent’anni non fu in grado di ritornare al suo promontorio e per tutto quel tempo un velo di tristezza e di malinconia lo accompagnò nel suo cammino ogni qualvolta la mente ritornava ad aprire il cassetto dei ricordi e a sfogliare i momenti più nostalgici della sua giovinezza.
Infine arrivò il giorno in cui riuscì a calpestare nuovamente quel suolo che aveva tanto amato. Con passo lento, appesantito dagli anni e dai dolori di una vita che non gli aveva sorriso come fantasticava quando, giovane nel cuore e nello spirito, si fermava ore ad ascoltare, si affacciò per un’ultima volta su quel promontorio. Lo sguardo perso nel vuoto, diritto davanti a sé, i pugni serrati quasi a voler trattenere fra le mani un bene dal quale non ci si vorrebbe separare mai, prese il coraggio a due mani e come un progetto preparato con cura fin nei minimi dettagli, urlò al vento con tutta la forza che aveva dentro, la sua rabbia. Una rabbia repressa per tanto, troppo tempo; un grido che gli salì dal profondo dell’animo: “Perché? Perché? Perché?”
In quella parola aveva rinchiuso anni di sconforto, di impotenza, di frustrazione. Tutti i dubbi irrisolti, le domande che non avevano trovato risposte, le ansie di una vita. Non era un semplice vocabolo urlato verso l’immensità del mare, ma era un intero processo di evoluzione umana che doveva essere completato. E in quel “Perché” vi era rinchiuso anche il suo destino.
In quel momento una corrente proveniente dal golfo sottostante lo investì improvvisamente con una tale energia che quasi perse l’equilibrio, già precario per colpa di una malattia che lo aveva colpito negli ultimi anni e che lo stava consumando, giorno dopo giorno.

Cadde in ginocchio e dai suoi occhi sgorgarono, inarrestabili, lacrime amare. Con la tristezza nel cuore, si rimise in cammino verso la sua vecchia casa. E ad ogni passo, sempre più pesante e affaticato, sentiva spegnersi sempre di più l’eco di quell’armonia che aveva tanto amato. Un riverbero che svaniva alle sue spalle; lento, silenzioso, inesorabile, come la lancetta dei secondi su un quadrante di un orologio, come il giorno che cede lo spazio alla notte, come la vita che lo stava abbandonando ai suoi rimpianti.

Nessun commento:

Posta un commento