lunedì 2 giugno 2014

Alessandro Cuppini - Due bicchieri di Fundador

Punto terzo perché ho una tremenda nostalgia degli anni della giovinezza e di tutto quello che vi era associato: le canzoni, le estati al mare, le prime dolci emozioni.
   Bevo un sorso robusto di Fundador e mi schiarisco la gola al sentire il calore che si sprigiona nel petto.
Guardo fuori dalla finestra del bar: il mare è calmo, con onde troppo pigre per frangersi in spuma. Forse è più malinconia che rimpianto, ma comunque sia è un peso nel petto che il Fundador aiuta ad alleviare. Ne bevo un altro sorso.
   Punto quarto perché, al momento in cui serviva buttarsi, mi ero improvvisato farmacista.

   Benedetta stava nel mio stesso albergo con la zia. In spiaggia i nostri ombrelloni erano a dieci metri di distanza. Stavamo sempre insieme, da mattina a sera, si fa presto ad innamorarsi in questi casi.
Andavamo a nuoto al trampolino, un chilometro fuori dalla spiaggia. Non era da tutti, qualcuno ci arrivava prendendo in affitto un moscone. Prima di partire lei si dipingeva un mazzo di fiori sul petto; arrivati al trampolino si tirava via il pezzo di sopra del bikini e prendeva il sole in topless, cosicché l’abbronzatura le lasciava una pallida macchia in corrispondenza. Lei stava lì, appoggiata con la schiena ai tubi di ferro del trampolino, a occhi chiusi; io la guardavo abbagliato, mentre un rivoletto di sudore le colava tra i seni andando a sfociare nel serbatoio dell’ombelico.
   Non solo per questo, per il suo splendido seno di diciottenne di robusta costituzione, non solo per questo io di lei mi ero innamorato. Di Benedetta mi piaceva la maniera che aveva di spalancare gli occhi come una bambina quando poneva una domanda, la piccola ruga tra le sopracciglia quando ascoltava qualcosa che la interessava, il fulmineo, liquido frammentarsi di lineamenti del viso quando sorrideva.
 Mi piaceva parlare con Benedetta, anche se con lei non ci capivo nulla: parlava di teologia con voluttà e d’amore facendolo apparire come un passatempo per i bambini dell’asilo. Era allo stesso tempo una celeste strega e una santa lussuriosa.
Lei certamente capiva che il goffo cameratismo che avevamo instaurato tra noi non mi era sufficiente, ma non faceva nulla per modificare i nostri rapporti. Le andava bene così.
   Aspettavamo Ernesto, il marito della cugina, un riccastro che sarebbe venuto a giorni per portare moglie e cugina di là dal mare con la barca che teneva al porto, una crociera di quindici giorni tra le isole della Croazia. L’aspettavamo con la stessa ansia, benché di origine diversa.
   Ricordo la stupenda spossatezza che mi aveva colto dopo una giornata di mare, e il desiderio violento di una sua venuta furtiva nella mia stanza, della sua risata ovattata, delle sue ciabatte col tacco e con le piume. Ma quella notte insonne non venne, e perché avrebbe dovuto? Ma quando il giorno dopo gliel’avevo detto, lei mi aveva guardato con uno sguardo indifeso, congiungendo rammaricata le mani all’altezza delle labbra.
Quella sera andammo a passeggiare sulla spiaggia. Era piena di coppiette allacciate nel buio, sedute sui mosconi tirati in secco. Noi camminavamo sul bagnasciuga e neanche ci davamo la mano. Dal bar sul lungomare venivano le note un po’ lacrimose di una canzone in voga quell’estate.
Benedetta, arrivata sul molo, si fermò. Vedevo il suo viso illuminato dalle luci del lungomare. Si appoggiò con una mano alla mia spalla, mi sorrise e con prudenza, per non sgualcire il sorriso, mi baciò. Fu dolce e salato di brezza marina. Io le presi il viso tra le mani e le dissi ingenuo:
   Dì, come sei bella. Vuoi essere la mia ragazza?
Ci fissammo un istante, poi un’ombra veloce, qualcosa di simile ad un predatore silenzioso in una notte senza luna, una civetta o che so io, passò sul suo viso con un’espressione fuggevole e impacciata. Io pure mi sentii timidamente in imbarazzo, la presi per la vita e incamminandomi verso la fine del molo dissi:
   Sto scherzando, una frase che odio. Non farci caso, baby.
Uno può buttare lì la stronzata più colossale di questo mondo, guardare negli occhi degli altri l’effetto che fa, e, se va male, dire:
   Sto scherzando, naturalmente.
La risposta in questi casi dovrebbe essere:
   No, caro. Hai detto una stronzata. Il che non vuol dire che sei uno stronzo, ma vedi di non abusarne.
Non così disse Benedetta, ma oggi sono propenso a ritenere che lo pensò. E tutto finì lì.
Quella notte stessa salì sulla barca di Ernesto, abile skipper, e la vidi partire dal molo, per traversare l’Adriatico.
   Un solo piccolo bacio, ma io mi ritrovai più che mai stracotto di lei, e continuai ad esserlo per molto tempo dopo, senza nemmeno che ci rivedessimo.
Pensavo, e forse speravo nel macerarsi del mio amore impotente, di sognarla, qualche volta. Non mi apparve mai neanche una volta in sogno. Forse fu intercettata dalle autorità preposte al controllo dei sogni, o forse fu lei stessa ad evitare di concedersi tali visite che assomigliavano tanto, nel mio caso, a quelle carcerarie.

   L’anno successivo tornai al mare nella stessa località, ma lei non c’era. Le vacanze quell’anno aveva deciso di passarle in montagna con sua cugina, mi disse la zia.
   Il mio mese al mare, con tanti ricordi suoi, fu un piccolo supplizio. Andavo al trampolino, e poi alla spiaggia appartata dove andavamo per stare tranquilli, e mi sedevo sulla sabbia in riva al mare. Come un anno prima, arrivava un’onda, ma, non avendo nulla da riferire da parte del mare che me l’aveva rapita, si profondeva in un inchino sonoro di scusa. E guardavo la schiuma incespicare su un frammento di bottiglia di birra, il cadavere di un granchio, un coso di ferro qualunque coperto di ruggine, una canna spezzata in due. Il cuore mi marciva vivo.

   Quattordici anni dopo torno nella stessa località, nello stesso albergo. Un quinto della vita se n’è andato, non vedo Benedetta da quell’ultima sera che la vidi salire sulla barca di Ernesto. Tutto è cambiato, la gestione dell’albergo, il bagnino, che non è più quello di un tempo. Tutto diverso, ma è lei che mi viene in mente quando vado sulla spiaggia. Ed è sua zia la prima che vedo mentre mi sistemo sotto il mio ombrellone.
Ci riconosciamo, ci salutiamo con simpatia, ci scambiamo informazioni sulla reciproca vita trascorsa nel frattempo. Il cuore rintocca pensieri e ricordi lontani, e batte così forte che temo si senta. Aleggia nell’aria la domanda:
   E Benedetta?
   È qui, è andata al bar per la merenda, ma sta per arrivare.
Una ragazzina di dodici anni si avvicina di corsa, sbocconcellando un bombolone.
   Ecco Elena, la bimba di Benedetta.
Dietro la figlia la vedo avanzare. Non mi ha ancora riconosciuto. Poi sorride. Mi abbraccia e mi bacia sulle guance.
   Ma guarda un po’ chi si vede…, dice, ed è subito chiaro alla zia, alla vicina di ombrellone, alla spiaggia tutta, che tra noi c’è stata intimità, molto più di quella che c’è veramente stata.
Ci sediamo, lei sulla sedia a sdraio, io sul lettino della zia, che ha capito e ha accompagnato Elena al molo per vedere i pescatori.
Benedetta indossa il bikini più ridotto della spiaggia: il seno prorompe dalla parte superiore ridotta ad un semplice nastro, poi lo sguardo mi scende fino ad un triangolo di stoffa rossa così esiguo che è sufficiente che si metta di profilo perché il rialzo delle cosce lo celi e lei sembri nuda. È un po’ come il re della favola: è più nuda di quando è realmente nuda perché ha tutta la disinvoltura di chi si crede vestito pur non essendolo. Mi parla di sé, del suo matrimonio fallito, della nascita difficile della sua Elena, del fatto che non può più avere figli.
Ha la sicurezza raggiante delle belle donne. S’è ingrassata un po’, e noto la leggera distorsione del suo viso. Il suo aspetto e i lineamenti del viso sono stati definiti e resi più netti dal bulino degli anni. Lo sguardo è strano, come distante, nei suoi occhi grigi, quasi che quei pochi etti in più del suo corpo abbiano un effetto oppiaceo su di lei. Ma poi capisco: neanche le sue parole sono più quelle che di lei ricordavo, e mi do dello stupido: forse che poteva essere? Durante questi quattordici anni avevo pensato che tutti gli orologi della natura, lo spuntar del giorno e il tramonto, il germogliare delle foglie e il ritorno delle rondini, l’azione corrosiva del tempo sul nostro corpo, insomma, le avrebbero girellato attorno e sarebbero sprofondati in lei senza lasciar segno alcuno. E invece…

E invece ora sono qui.
   Un altro, ordino al cameriere.
E quando arriva il bicchiere di Fundador, ne bevo metà in un sorso, avidamente. Perché?
   Punto primo perché Benedetta è ancor più bella di come me la ricordavo.

   Punto secondo perché quando incontri la donna che ti piace, ti devi buttare, senza pudori e senza imbarazzi. Non fare calcoli, getta dalla finestra il bilancino. E chiudi la farmacia.

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