sabato 5 luglio 2014

Rosa Gallace - Un’alba che non è uguale alle altre

Un’alba che non è uguale alle altre

E' spuntata l'alba
in un giorno che non è uguale agli altri
Distolgo lo sguardo insidioso di un specchio
Mostra gli anni
che inesorabilmente hanno sfidato il tempo
avaro di giornate di luce
in stagioni già sbiadite
Un compleanno di ricordi
sepolti in un diario senza più pagine
Parole scritte con fili d’erba
ricamate con petali di papaveri
nei giorni della mietitura
quando le giornate
e le ore non bastavano mai
e le sere accovacciate sull’aia
tra silenzi e paura
attendavamo il lume delle stelle
Chicchi di grano di un terreno fertile
impastati al sudore di mani ancora acerbe
Donne coraggiose
intonavano litanie per i loro uomini
mentre le bombe piovevano dal cielo
come bianche farfalle di neve
Figli senza padri e bocche da sfamare
e la speranza prendeva posto
tra rose e spine e petali di biancospino
In quest’alba appena accennata
trascino il tempo
rovisto tra le tante inutile cose
che mi circondano
Ritrovo il diario
Ricordi e parole come pastelli sbiaditi
Ora corrono in questo cielo azzurro d’agosto
Nutrimento fertile per i gabbiani
che volano adagio verso nuovi cieli sicuri
Il sole si alza piano
Lo sguardo si perde e l’orizzonte appare
Ora posso anch’io volare
Cancellerò calendari e compleanni
dietro grappoli di glicini
accampati su muri vecchi
e finestre sempre chiuse
in quest’alba appena accennata
che non è uguale alle altre.

10 Aprile 2014

domenica 8 giugno 2014

Mario De Fanis - La valigia del tempo

Dì: è proprio vero, pà? Mà dice che nelle sere d’estate
sotto al balcone le portavi serenate;
che solo a sentire quel mandolino, su nel cielo,
tutte le stelle sfriccicavano incantate!
Diana racconta che da bambina piangeva, le sere
che tu, uscendo, non le tiravi le treccette nere.
Nice sorride ancora delle arance che facesti volare
tra le gambe della gente,scendendo da un treno del sud..
Ugo, invece, risente ancora negli orecchi
come straziava l’alba l’ostinato tuo silenzio,
il giorno che a sedici anni: “Devo andare, pà!”
venne ad annunciarti che lasciava i banchi di scuola,
che partiva per andare alla guerra!
Quando tornò, fiorivano già le rose sul tuo nome..
Quante poche stagioni ci concesse il destino!
Trepido apro la valigia del tempo e ci rovisto dentro,
ma naviga così lontana,ormai, la nave dei ricordi,
che la dimenticanza s'è fatta la mia croce.
Neppure il suono ricordo più della tua voce:
me la figuro a volte dolce, come il mormorare,
scorrendo sopra i sassi, che fa il mare;
a volte invece su toni acuta, come l’abbaiare
festoso di un cucciolo affamato;
altre, forte e cupa come il fischio di  un vapore.
E provo senza riuscire, provo ancora..
Ma ostinata la tua bocca resta muta.
Allora, sento la pena che in rimorso si tramuta,
perché  tutto l’amore che m’hai dato
serbare non ho saputo, e l’ho perduto.
Come un gabbiano stanco nella nebbia
senza di te la vita ho attraversato:
io che la guancia mi sarei accarezzato
se tu, in un momento di collera passeggera,
con uno schiaffo  me l’avessi arrossata.
Io, che dietro la porta il tuo ritorno avrei spiato.
Adesso solo una foto ingiallita mi restituisce il tuo viso,
ma io mi mordo il labbro, perché per quanto frugare
io faccia nel cassetto, neppure una io ne riesco a ricordare,

di tutte le volte che in fondo al cuore m’hai sorriso.

Valentina Fenu - EternaMente (Il tempo obbedisce all'amore)

Il treno pullula di mille persone, racconti e avventure da dire e annuire.
Non ho voglia di assorbirli; ho le orecchie ancora ovattate dalla melodia delle onde che si infrangono a riva e persino lo stridio delle rotaie è più doloroso che mai.
I corsi sono ripresi e gli uffici riaperti: a settembre la vita riparte – e pare un paradosso visto l'avvicinarsi della stagione letargica – e la massa è un fiume che corre al mare, lì, all'apertura delle porte automatiche con il conseguente slalom per accaparrarsi i posti prediletti.
I vagoni profumano di nuovo e l'aria è troppo fresca, al punto che le donne che fino a qualche istante prima esibivano i segni dell'abbronzatura con scollature da capogiro, ora si arruffano in gigantesche sciarpone.
“Fortuna ho il posto corridoio, da qui guardo l'intera umanità!”.
Poco più avanti, alla fermata successiva, si è seduto lui; non è bello e a tratti può apparire banale con quei jeans scoloriti e la polo grigia da bravo scolaretto fuori età, intento a sbranare le pagine del libro che tiene in mano.
Lo guardo fugacemente – no, in realtà lo fisso un paio di volte ma lui non accenna a scostare lo sguardo – e mi rituffo nella scoperta dei pendolari: un gruppo di segretarie cattura la mia attenzione per il tono di voce sostenuto, rivolto a stupide storie di liaisons amorose di poco conto; accanto a loro, due ragazzini in apprensione per il primo giorno di università si prolungano in discorsi ansiosi ed entusiasti e... oh no, ancora lui.
Lo osservo e no, non è interessante né affascinante. No.
Però lo guardo e mi perdo liberando centinaia di pensieri.
- “Che tipa strana, e dire che non smette mai di stupirmi nonostante sia passato un secolo di mari, albe e tramonti...”
- “Mi sta guardando, che figura! Penserà che sono una curiosa o peggio ancora una facilona!”
La mente vaga, ma il fischio del treno inesorabile ci riporta alla realtà: il timido sole di Milano sorride e in Cadorna c'è un buon profumo di dolce appena sfornato. Lentamente il serpente di folla si srotola verso i tornelli, e poi in corsa per le scale della metro e le fermate dei tram; lo perdo nel visibilio del caos e una sensazione di mancanza mi pervade “Ripigliati!”.
Mi intrufolo in un bar vicino allo Sforzesco
“Cappuccio, treccia al cioccolato e un po' di buonumore”, il barista ride e inizia una nuova giornata.
Arrivo presto in stazione stamane; senza volerlo ho anticipato la sveglia di mezz'ora e mi sono preparata con cura – forse l'ultima volta che ci misi tanto fu in occasione del colloquio che mi lanciò poi nel mondo del lavoro.
“Cinque minuti di ritardo, maledizione al tabellone luminoso! Dovrebbero toglierlo, non sanno che accrescono l'ansia?”: la mia tensione cresce, in ufficio arriverò puntuale perché so di prendere sempre la corsa precedente all'orario di inizio, così che io possa gustarmi una fettina di città prima di rinchiudermi sulla scrivania per otto lunghe ore; eppure devo sedermi al più presto su quel sedile bianco e blu.
Ciuf ciuf,
sospiro di sollievo. Corro veloce, medesimo posto di ieri e vorrei lanciare la mia borsa su quell'altro sedile...oddio. “Perché?”
Credo di essermi decisamente fatta un viaggio mentale, quale sedile e per chi? “Stai serena e smettila!”.
Un istante più tardi in tale posizione una ragazza con gli occhiali troppo grandi per il suo viso è intenta a sfogliare una rivista di moda e una morsa allo stomaco mi irrigidisce.
Lui non si siederà al “suo” posto; a me poco importa – oggi ho un'importante riunione cui assistere – devo concentrarmi sul planning della giornata.
“Scusi signora ” una voce chiara e profonda si rivolge ad una bella donna in carne cui è stato urtato un braccio, nel tentativo di passare nel corridoio.
Lui è apparso, stesso posto stessa ora.
Mi guarda e lo guardo.
Un tramonto sul mare; non un mare, ma il mare nostro. Nostro.
E' un corso di cose ineluttabile, ci metti una vita e tutti i viaggi del mondo a capire qual'è; sempre lì, nel tuo cuore, mai lontano dai sogni. Ma hai attraversato i continenti e l'hai violentato mica da ridere per riconoscerlo.
Uscimmo di casa coi costumi sgualciti da un pomeriggio di sonno, qualche birra e il cuore impazzito: il paese era deserto, l'estate che fino a pochi istanti prima pareva incalzante si era spenta alla rapidità di un soffio perché la brezza aveva spazzato via il tepore.
Eravamo avvinghiati in un abbraccio, e credevamo fosse per sempre; il tramonto ci si scaraventò addosso: non te lo immagini che in quattro occhi ci possa stare tutta quella pienezza. Quattro occhi, due mani bene incastrate e un cuore, il che sfugge a qualche calcolo logico della matematica.
L'acqua fresca ci sfiorò le caviglie e solo l'orizzonte sancì un confine tra quelle distese azzurre e dorate e arancioni di aria e mare, ma non ne definiva mai la fine: e allora ridemmo, sentendoci parte di quell'infinito.
Cadorna, ancora una volta.
Intorpiditi, ci incamminiamo in due direzioni diverse, .
La settimana si sviluppa indolente, le vacanze hanno giovato allo spirito e al corpo, ma qualcosa non torna.
Da qualche mattina - precisamente da martedì - mi relego all'odiato posto finestrino e fisso il paesaggio che scivola: dalla Brianza alla città, i contorni  frastagliati di monti e alberi si appiattiscono pian piano in rigide rette di tetti e cemento; l'aria condizionata non funziona e avverto caldo in questo vagone semideserto: è sabato e chissà in quanti saranno a casa arrotolati in morbide lenzuola.
Devo rendere un mazzo di chiavi alla mia collega, domani dovrà preparare una conferenza e sarà in ufficio da sola – certo, di domenica dal momento che vuole far colpo sul capo. Ci incontriamo sui binari, è sbrigativa e d'altra parte non ci siamo mai fiutate troppo.
“Dai prendiamoci almeno un caffè insieme! ”, ma non può.
Mi stupisco di averle chiesto un caffè: è una sorta di rito che condivido con poche persone che amo aver presenti nella mia vita.
Sorrido da sola; un lapsus? Un'emergenza di compagnia?
Penso a lui e non devo, allora provo a buttarmi nel mondo.
Mi piace la vivacità della stazione: gli accessi ai binari ricordano giochi di bambini, quando ci si infilava sotto i tornelli girevoli del banco frutta al supermercato e le mamme arrabbiate ci inseguivano coi carrelli.
Un po' bimba mi ci sento ancora: cresciutella e con una buona dose di maturità, ma con ancora intatti quella spontaneità e quell'attaccamento alla vita tipici dell'età dell'innocenza.
L'orologio piazzato in alto suggerisce che posso prendermi del tempo per me; mi accuccio ad un tavolino bianco del baretto sul binario 1; un caffè americano in mano, la mente pronta e gli occhi sgranati.
Arriva un mezzo e si ferma davanti a me; posso scorgere il gancio d'acciaio che somiglia ad una boa arrugginita che pare voglia dire “Eccoti finalmente, riposa un po'!”. C'è qualcosa di magico nell'arrestarsi del treno al capolinea; la corsa è bella ma solo quando c'è un posto dove andare, come le barche che per quanto possano navigare e scoprire nuovi mondi, necessitano di attraccare in porto e sentirsi al sicuro.
I visi sono spettacolari, alcuni corrucciati, altri felici, altri pensierosi: l'umanità è un film incantevole da guardare.
Decido di tornare a casa: in pochi minuti sono seduta sulla seconda carrozza del treno – vecchio, che alcuni definiscono “storico”, nel tentativo di giustificare la scomodità delle panchine in similpelle bordeaux orribili e i finestrini imbrattati – e un lieve sonno mi consente di chiudere gli occhi, pensando a lui.
“Sto veramente esagerando, pensare a chi? A cosa? ”, ripiombo coi piedi per terra; il treno è ancora fermo, certo, sono salita venti minuti prima della partenza, e ci metto qualche secondo a focalizzarmi sul vagone, sull'odore acre dato dall'ambiente demodè e ammutolisco.
Ero già in silenzio. Si ammutoliscono i pensieri, ma solo per un lampo perché il caos della mia mente ha inizio e mi sconnette dalla realtà: lui è lì, di fronte a me.
Un tranquillo sabato mattina mi sta privando di una funzione involontaria quale il respiro.
-“La vedo sconvolta, più che mai. Che non sia serena? Che non rammenti dell'ombra sotto la pianta di fichi? ”
-“Mi Legge l'anima.”.
C'è una pianta di fichi, proprio fuori le mura e profuma l'aria di una gioia antica. Sovvengono immagini di una città in costruzione, con pietre forti, rosse e ottocentesche.
E cavalli, vesti, giocolieri e messaggeri in festa alla venuta del Re.
La stazione maestosa si erge tra i palazzi e il vetrocemento: la frenesia e l'impotenza degli uomini simili a formiche nel subbuglio della metropoli.
Il tempo fottutamente veloce, le lancette impazzite e poi la sorpresa: si apre un cancello proprio a pochi passi da quel confluire di cose e l'aria si colora vivace di un profumo gentile.
La mente va alla discesa verso il mare, sentiero assolato e a tratti ingiallito delle nostre vacanze sarde, quando ci fermavamo mille volte a raccogliere fichi; il profumo saldamente ancorato nel cuore più dei tatuaggi che ora ornano i nostri corpi seduti qui uno di fronte all'altro su due panche imbottite di un vagone che ci inonda di energia.
E' un istante: la scoperta della pianta di fichi nel cuore di Milano ci sorride, ci prende l'anima tutto appare ora - come allora, in quella vacanza - vivido e fiammeggiante.
E non esiste tempo.
L'altoparlante indica che manca una fermata alla sua.
Non so chi sia, ma abbiamo qualcosa che ci lega; si accende una luce e si sprigionano immagini di noi nel mondo: amanti sotto le stelle di New York, e poi mano nella mano lungo i corridoi dalle Alpi ai Pirenei, e ancora insieme in un dolore lontano sulle sponde di un triste Tevere.
Stiamo vivendo questa e altre innumerevoli vite scandite dallo sferragliare delle rotaie.
Non parliamo.
Eppure ci raccontiamo di universi che sono vissuti attraverso di noi.
La sua fermata è arrivata, ma non scende.
Le porte si richiudono.
Tra 5 minuti sarò confusa, dovrò scendere, non riuscirò a continuare la corsa così.
Che senso ha? Mi distraggo pensando alla mia collega e al caffè.
Lo guardo e mi fissa; devo dirglielo, ora o mai più: io tra due giorni non prenderò questo treno, e chissà se lo sa di già; andrò al Sud. Mi sento stupida, ma devo farlo; ho voce per gridare molte lotte ma ora ho paura.
Già, ma la paura è fatta di niente; mi faccio coraggio:
“Perché non ci prendiamo un caffè?
Potremmo fermarci in quel vecchio bar, io mi sistemo un attimo in bagno e arrivo in ritardo come accadde già quella volta di molto tempo fa e tu mi aspetti, come fai ogni mattina sui binari guardando fiducioso all'orizzonte l'arrivo del convoglio; ci beviamo un caffè e ci guardiamo, dicendoci che va tutto bene.
Ho voglia di sentire il cuore che batte impazzito, e magari la finiamo con questa pazzia.
Ci prendiamo questo benedetto caffè e la chiudiamo qui.
Ho voglia di guardarti fisso negli occhi prima di salutarti; dritto in questi occhi caldi e scuri come il caffè che dovremmo bere perché in fondo vorrebbe dire 'dai, passiamo il resto dei nostri giorni insieme'.
Immagino l'abbia capito, non mi sembri così distratto.
Certo non so i dettagli, come il tuo nome ad esempio, ma suppongo che il caffè ti piaccia, dato che io ne vado matta, e parimenti non ti piacerebbe perderti da qui all'eternità, se non nelle mie mani.
Insomma, perché non ci prendiamo un caffè?”
Il treno frena, in fretta;
le porte si schiudono, a forza.
Mi alzo e non fa altrettanto.
Balzo giù dalle scalette, sentendo già gli occhi riempirsi e le guance bagnarsi.
Ciuf ciuf,
i vagoni sfrecciano e resto immobile sulla banchina, il tabellone spento e le panchine deserte.
Certo, la vita non sempre è come ce l'aspettiamo, vorremmo fosse una sfera e invece è un cubo e gli angoli fanno male a volte.
Cosa ti aspettavi? Le favole del “vissero felici e contenti”?
Mi accingo ad attraversare i binari, nel solito tragitto, molto più pesante che mai; in testa mi balena una canzone che cantavamo da ragazzini “ma il treno dei desideri
nei miei pensieri all'incontrario va”, mi rattristava allora e di più adesso.
Un brivido sulla spalla sinistra; il tocco di una mano e prima ancora di voltarmi:

“Mi chiamo Federico e mentre ti sistemi, ordino due caffè lunghi come il nostro tempo e ti aspetto, come faccio da una vita e più. Che ne pensi?”.

lunedì 2 giugno 2014

Gianantonio Dolfin - Molto tempo fa... Sul torrente

Capita a tutti di ritrovare, in fondo ad un cassetto, non perlustrato da molto tempo, qualche piccolo oggetto del quale ci si era completamente dimenticati, o che si riteneva perduto. Recentemente a me è capitata la stessa cosa: si tratta a di una foto di mia mamma, che, non so per quale motivo, non era stata inserita nell'albo al posto che le competeva.
Lieto per quella scoperta, la guardai a lungo: mia mamma appariva seduta su di un grande sasso, sorridente e guardava lontano. Pensandoci, ricordai che era sua abitudine recarsi, assieme a me e a mio fratello, alla riva del torrente, non molto lontano dalla nostra casa di montagna. Giunti sul posto, mentre noi si giocava con i piedi nell'acqua gelida, lei saliva, quasi con l'abilità di un rocciatore, in cima a quella cattedrale di roccia per godersi il sole, ed è lì che un giorno la fotografai.
Erano tempi che a me oggi sembrano bellissimi, ormai lontani, irrecuperabili; tempi a dir poco sereni, senza malvagità, irruenza, brama di possedere. Con un sospiro riposi la foto là, dove l'avevo ritrovata, senza accompagnarla alle altre, testimoni dei nostri ricordi.
Non so perché lo feci, forse perché ormai quel posto in fondo al cassetto era suo. Passarono i giorni, pensai ad altro, ma una sera presi nuovamente in mano quella foto, ripromettendomi di tornare lassù: volevo ritrovare quel masso che, date le riguardevoli dimensioni, non poteva che essere ancora lì. Salii in macchina e partii. Viaggio regolare, traffico scorrevole. Poco dopo mezzogiorno ero alle porte del paese, dove non andavo da oltre cinquant'anni. Mi fermai: tutto era cambiato e il posto quasi irriconoscibile. La strada, ora ovviamente asfaltata, si addentrava in doppia corsia. Tutto era più largo, più imponente. Le vecchie case, abbattute, avevano lasciato il posto a moderni edifici, soprastanti profonde arcate, dove si poteva passeggiare lontano dal traffico automobilistico. Negozi, un tempo inesistenti, attiravano con le vetrine illuminate. Mi fermai qualche centinaio di metri all'interno del paese, ma che dico, della città. Parcheggiai ed entrai in un bar. Ero nervoso, impaziente; meditavo su quale strategia attuare per raggiungere il torrente: incamminarmi, scoprendo tracce della vecchia strada, soffocate da tutte quelle modernità? O più semplicemente farsi dire dal barista la direzione più breve? Ero proprio incerto, non sapevo esattamente cosa fare. Bevvi un caffè ed uscii.
Il sentiero è quello di un tempo, in terra battuta, sinuoso tra i verdi prati. Lei forse è davanti a me e ha già raggiunto il luogo dell'incontro. Asfalto e moderne case sono scomparsi. L'improvviso mutamento del luogo e del tempo, non mi stupì troppo, perché queste sono cose che capitano a me e a pochi altri. Quindi procedo, attento a riconoscere l'antico paesaggio: le case in pietra viva, le stalle in legno, i covoni di fieno, i falciatori, l'aria profumata , piena di sonorità familiari: canti di taglialegna, cori di donne, con le gerle cariche di erba medica. Tutto è come allora e provo una sensazione di quiete e di serenità.
Da qui la nostra casa non si vede, del resto l'ho esclusa dal mio programma di ricerca: ora bisogna andare al torrente. Avanzo senza esitare come avrei fatto allora; gli abeti dei boschi attorno, sembrano inchinarsi al mio passaggio.
Ora il sentiero mi porta proprio dentro un bosco. A un tratto mi sento chiamare alla mia destra: guardo in quella direzione e li vedo tutti lì: gli amici di quell'età. Sono in fila ad una quindicina di metri da me e mi salutano ridendo. Mormoro il nome di ciascuno, rispondendo con un altro caloroso saluto. In testa al gruppo c'è il mio amico del cuore che morirà poco dopo, senza avere il tempo di salutare nessuno. "Di là, di là!" indicano, sapendo dove sono diretto, poi, in silenzio, a poco a poco si allontanano. Non è un sogno: è la mia realtà, emersa da una forza interiore, capace di togliere al tempo la sua crudele ed inarrestabile corsa in avanti. Ora c'è silenzio, ed io cammino, certo di trovarmi vicino alla meta. Dopo una curva, so cosa avrei trovato, fuori del sentiero. Infatti è lì: la baracca di Nardin. Un uomo senza età e anche senza denti, che biascica tutto il giorno una lingua incomprensibile. Si dice che Nardin, un tempo, facesse il calzolaio. Ora non si sa come viva, ma forse non esisteva più e quella che vedevamo era la sua ombra.
Comunque sia, Nardin ora è lì, ma non mi vede, indaffarato attorno alle gabbie degli uccelli che lui
stesso cattura, con il vischio, su in montagna. Ricordo che ogni volta lo seguivamo: lui con passo lento, ondulato e lo zaino sulle spalle che si spostava ora a destra, ora a sinistra. Giunto sul posto, spettava a noi di sistemare i fuscelli unti di vischio. Lui beveva il suo mezzo litro e poi si addormentava. Gli uccelli catturati, alla fine, erano tutti nostri. Nardin, il tempo ti ha conservato tale e quale. Ora ti vedo, ma chissà quando ancora?
Superato il dosso, ecco il torrente. Ho il cuore in gola. Cerco di scorgere fin da lontano quel grande menhir e in cima mia mamma che senz'altro avrebbe rivolto lo sguardo verso di me.
Ma, quando meno me l'aspetto, il tempo compie un balzo, ricuperando la sua contemporaneità. Frastornato, vidi sì il torrente, ma era più largo di allora, il corso più regolare e, per di più, era stata costruita una grande ansa, per dare posto a nuove case. Scesi verso la riva sinistra. Un rumore insopportabile si era diffuso nella valle: grossi macchinari per i movimenti di terra, scavavano, allargavano, fendevano le sponde, aggredendo sempre più il quadro dei miei ricordi.
Vidi quello che doveva essere il capo cantiere. Mi avvicinai e tentai di parlargli. Questi sorridendo, chiudendo strettamente gli occhi e scuotendo la testa, mi fece capire che non sentiva niente. Entrammo in una baracca per il ricovero degli operai, e qui gli dissi chi ero e che cosa cercavo laggiù. "Un grande masso?" ripeté il capo cantiere. "Sapesse quanti ce n'erano in questa zona. Sono stati rimossi tutti; usando anche la dinamite per i più ostinati. Ormai non ne troverà più nessuno." Compresi, mi rassegnai e salutai quel cortese personaggio. In testa, oltre il rombo dei macchinari, mi ronzavano quelle parole: "Usando la dinamite per i più ostinati." Mi convinsi che quello che ospitava mia mamma, doveva essere stato uno di questi. Dove poteva trovarsi in quel tempo? Impossibile stabilirlo, in considerazione dello sconvolgimento della geografia di quel luogo.

Raccolsi un ciottolo levigato, tondeggiante, che, a ben guardare, qualche somiglianza in miniatura, poteva avere con quel grande, antico altare. Poi, rassegnato, mi diressi al parcheggio e salii in macchina.

Viviana Noce - Tempo

Tempo
Tempo.
Che illumini gli occhi miei.
Con un raggio di luce eburnea.
Con un fascio di gocce d’argento.
Con una catena di pulviscolo vivente.

Tempo.
Che mi regali vita e note.
Che dalla musica del tuo tickettio raggomitoli i secondi e li rilasci,
nella pioggia danzante delle ore.
Che batti e ribatti in una scatola d’oro,
dondolandomi tra vesti di trasparente rugiada.

Tempo.
Che non scadi nello trascorrere della mia vita.
Da quella bimba che rotolava tra parole e colori.
Alla donna che oggi,
conta le rughe allo specchio,
senza paura,
senza vuoti di memoria,
senza scordare ciò che le radici trattengono,
ma rilasciano,
immote ed immobili.

Ed io.
Che non arreco altro che il respiro ad ogni attimo che ricade sulle spalle mie e a terra finisce, calpestato,
come una foglia autunnale.
Ed io.
Guardando al cielo che riconosce gli occhi miei,
rivolgo al volto degli anni il medesimo sorriso che da bimba,
mi portava dai colori alle parole,

dalle parole ai colori.

Rosa Gallace - L’altalena della vita - Le parole taciute - Un’alba che non è uguale alle altre

Su richiesta dell'autore le liriche resteranno indedite

Paolo Pietrini - Affronterò il tramonto - Corre la vita - Memoria del sogno

Affronterò il tramonto
Affronterò il tramonto
banale e drammatico,
allegro e crudele
come l’orizzonte che brucia.
Non voglio trascinare
la mia sera nella notte
e attendere nel buio
che l’alba mi riscatti.

Inseguirò il coraggio
e accenderò l’aurora
perché ogni giorno
mi colga senza timore
alla fine del tunnel,
sereno e consapevole
della tragica farsa
che la storia alterna
all’umana tragedia
nel teatro del mondo.

Affronterò il tramonto
allegro e crudele,
banale e drammatico

come il giorno che fugge.



Corre la vita
Corre la vita;
alla sorgente è rivolo
e subito scende torrente   
ma ci par lento il suo corso
che presto si fa piena e ci travolge,
poi impaluda e si perde nel mare infinito.
Corre la vita e giace, la Storia non si ferma.   




Memoria del sogno
Nel cielo i colori del grigio,
    odori di pioggia e d’autunno.
Giorni e giorni insistenti
    di gocce impalpabili e fitte
che affrettano il passo
    dei nostri gruppi radenti
da un portico all’altro fin dentro
    la campanella d’entrata. 
E ancora li attendono, grigi
    di pioggia insistente, 
mentre fuggono in fretta
    la campanella d’uscita
tra deluse speranze di sole
    da un portico all’altro.
Non è nostalgia del passato
    adesso che il giorno mi fugge  
ma è sempre vivo il ricordo     
    di quelle giornate lontane,
vestite di pioggia e di grigio,
    deluse speranze di sole
di una vita sofferta  ma vera,
    il sogno di un mondo sereno,
svanito nel grigio più grigio
    di splendidi giorni assolati
in tante stagioni senz’anima. 
    Il tempo è cambiato, mi dico,
il clima, gli uomini, il mondo,
    la vita che corre dintorno.
Sognavo nostalgia del futuro,
    ritrovo memoria del sogno.

Mariangela Romanisio - Dilaga… dilata

Dilaga… dilata
Dilaga…
Il tempo avvita la sua corsa
e dilata lo spazio dell’eterno.

Gli occhi
a intravedere un altro tempo
e il battito del cuore a registrarlo,
mentre i piedi
riconoscono il cammino.


Le mani in tasca al caldo dei ricordi.           

Marco Pagan - Nel tempo

Nel tempo
Ricordo il primo sguardo
Il mio cervello era già in ritardo
Tu li sola
Non mi uscivan parole dalla gola
Incantato,fermo,bloccato
Su ciò che per tutta la vita avrei amato
Perso nel tuo viso
Da cui è raro rubare un sorriso
Tanto saltuario ma cosi perfetto
Che mi fa dimenticare di esser rispetto a te in difetto
Non so se ricordi, d'altronde eravamo adolescenti
Ma era immensa la voglia di dichiarare i nostri sentimenti
Di unire i nostri sentieri
Senza staccarsi nei periodi più neri
Oggi, qui nel presente
Noi due come costante pensiero nella mente
Io con qualche ciuffo in meno
Mentre tu allatti orgogliosa al tuo seno
Finalmente con un posto nel mondo
E immediatamente torno al primo secondo
In cui si è fermato il cuore
Capendo che saresti stata l'unico amore
Uniti verso il futuro
Nel quale muteremo di sicuro
Non so dirti come sarai con qualche ruga
Ma di sicuro non mi darò alla fuga
Se comparirà qualche capello bianco
Eccomi li, sempre al tuo fianco
L'orologio girerà la sua lancetta
Tu per me sarai per sempre perfetta
Passeranno le stagioni
E con loro un sacco di emozioni
Sarà come un ballo veloce per poi finire in un lento
Ma non cambierà mai il mio sentimento
Il tempo viaggerà senza sosta
Ma che ti amo sarà sempre la mia risposta


Manuela Monti - La notte

La notte
Ti amo, o notte,
nei tuoi silenzi,
nel tuo buio più nero.

Ti sento vicina,
in te ritrovo
la pace e il pensiero.

Mi parli di te,
del giorno passato,
del giorno ormai morto.

Attendi paziente
il giorno a venire
e ricopri ogni cosa
con l'ombra tua scura.

Mi avvolgi in silenzio
e sento la vita che passa
come un battito d'ali
e vedo le stagioni sfiorire
e vivo il sentimento
di un tempo

che ormai non sento più mio.


Luigi Bernardi - Commedia

Commedia
Ma dimmi cosa ho imparato o vita
forse le rughe m'hanno insegnato
qualcosa di più dell'essere inutile
a questa commedia
che sa d'equivoco, di vecchia maniera
e poi lacerante, a volte patetica
a tratti snervante
impenitente ed irriverente
alle prove d'incerto cammino
d'ogni viandante
che ha saggiato qualche sentiero
ora interrotto a volte incostante
qualche volta battuto
con sorriso smagliante
di felicità .... solo agognata
inebriante.

Che cosa mi porto allora
d'una potente ingenuità
d'un tempo remoto, d'una beltà
tutta infantile, tutta semplicità
calata ai ruggenti ruscelli d'incanti
di forti emozioni, di suoni invitanti
che attraversavano l'anima
con mille ragioni
dai primi approcci, alle mille intenzioni
d'esistenza posticcia
tutta allargata a nuova amicizia
d'amori incollati su diari datati
con graffiti di scuola e richiami alterati
al fischiettar di slogan e proteste
saran tutti promossi, come promesso
ad inventarsi lo stesso, statue di gesso
giorni di festa per tutti quanti
alla fatica..... già stanchi
del sopravviver solo a metà.