mercoledì 23 maggio 2012

Marco Maresca - La terza Giulia


Soltanto le sue labbra blu. Non vedeva altro. Erano l’unica cosa che riusciva a catturare l’attenzione di Pedro, mentre stringevano una Camel Light e ne aspiravano il fumo.
“E’ stata dura oggi fare la strega cattiva al centro commerciale con quei mostriciattoli urlanti. Vediamo se sei così bravo da farmi passare il mal di testa…”
A Pedro piaceva l’idea che Giulia non si fosse struccata. Prima di quel pomeriggio non era mai stato con una ragazza dalle labbra blu.
“Ma oggi non è Halloween! Come mai ti sei dovuta vestire da strega?”
“Mi hanno dato cinquanta euro per quattro ore di lavoro, in questo periodo per quella cifra andrei in giro anche vestita da coniglietta!”
“Non ti sei mai vestita da coniglietta per stare con me, però”, le aveva risposto Pedro, in tono vagamente polemico ma scherzoso.
“Non mi hai mai dato cinquanta euro per vestirmi in quel modo, amore!”
Faceva di tutto affinché lei parlasse, per poter osservare meglio le labbra. Era come se volesse scattare una macro, e gli serviva tempo per valutare meglio l’angolazione, trovare l’illuminazione giusta, capire come impostare la fotografia. Il labbro superiore di Giulia era lungo e non particolarmente pronunciato, mentre quello inferiore era corto e parecchio turgido, e mostrava i segni di un vecchio piercing.
Un lungo bacio, umidiccio e fresco nonostante i quasi trenta gradi di temperatura esterna. Il rossetto blu aveva un sapore strano, molto diverso da quello del lucidalabbra incolore solitamente utilizzato dalla ragazza. Pedro non faceva fatica a soffermarsi su questi particolari. Era sempre molto attento ai dettagli.
Il ragazzo era iscritto a scienze della comunicazione, ed era appassionato di cinema e fotografia. Era di origini peruviane ma aveva sempre vissuto a Dairago, un paesino ad ovest di Milano, in cui aveva trascorso l’infanzia ad annoiarsi e l’adolescenza a fumare canne in mezzo ai boschi. A Milano riusciva a procurarsi il fumo con maggiore facilità, e poteva andare in giro vestito come voleva. Gli sembrava che la città gli portasse fortuna.
Giulia l’aveva conosciuta al Naviglio Pavese, proprio su quello che lui chiamava “ponte di Giulia”. Era il ponte di quel famoso video musicale, che Pedro apprezzava per il coraggioso utilizzo di un lunghissimo piano sequenza.
Avrebbe voluto citare quel video nella sua tesi di laurea, se mai ci fosse arrivato. Avrebbe fatto una tesi sulle implicazioni socioculturali del neorealismo. Per lui il famoso filmato con la ragazza che cammina sul ponte del Naviglio Pavese era la massima espressione del neorealismo italiano, cinquant’anni dopo il suo periodo d’oro. Forse la canzone di quel video non sarebbe piaciuta ai radical chic milanesi che frequentavano il suo stesso corso, ma i professori della commissione, ne era certo, avrebbero apprezzato.
Giulia quel pomeriggio indossava delle mutandine di pizzo nero e una canottiera bianca semitrasparente. Mai vista una strega così sexy. E la sua bocca di un colore innaturale si stava pericolosamente avvicinando a qualcosa che non era più la bocca di Pedro. Giulia guardava Pedro dritto negli occhi. Lo trafiggeva con lo sguardo. E le sue labbra, in quel momento, erano ancora più in evidenza. Il labbro inferiore diventava sempre più marcato, e la macro scattata dalla macchina fotografica immaginaria diventava un’opera d’arte sempre più vicina alla perfezione, per il soggetto, l’equilibrio nella composizione della fotografia, i giochi di luce che si creavano, la precisione della messa a fuoco.
La ragazza studiava scienze dell’educazione alla Bicocca e condivideva con una sua compagna di corso un bilocale in zona Navigli. Le vite delle due studentesse erano separate da una porta scorrevole, quasi sempre chiusa. Giulia proveniva da una famiglia della borghesia milanese. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per far sì che la sua condizione di benestante passasse inosservata. Durante quella torrida estate milanese, aveva scelto di vivere così il suo voto di povertà: semplici canottiere bianche con fiorellini, che coprivano reggiseni colorati e sportivi di quelli che si potevano trovare dai cinesi al mercato del sabato mattina, pantaloncini blu della tuta, infradito, niente vacanza con gli amici, vari lavoretti part-time, e l’appartamento in condivisione, senza condizionatore e con una lentissima connessione ad internet che spesso saltava.
In quel momento Giulia stava facendo l’amore con Pedro, con il quale stava insieme dall’autunno dell’anno precedente. Era sopra di lui, con modi decisi. Dopo alcuni minuti il suo respiro era diventato ansimante. Pedro era sempre concentrato sulle labbra blu, perdendo un po’ dell’intimità del momento, ma guadagnandone in eccitazione ed appagamento del suo complesso senso estetico. Giulia si eccitava terribilmente quando si sentiva desiderata in quel modo. Come spesso era accaduto in quell’estate, entrambi avevano raggiunto l’apice del piacere insieme. Questo, per Pedro, era anche l’apice di ciò che le relazioni umane potessero offrire.
Faceva caldo. Giulia si era staccata impulsivamente da Pedro con un rapida spinta di gambe sul materasso, ed aveva appoggiato la sua schiena nuda contro il marmo del davanzale della finestra aperta. Stava riprendendo fiato.
Pedro aveva già tirato fuori una cartina e stava sgretolando un pezzo di fumo. Dopo due o tre boccate, Giulia gli aveva rubato la canna dalle mani, ed aveva fatto un paio di tiri, aspirando profondamente.
“Tu che dici? E’ meglio Germania o Belgio? No, non rispondermi, tanto ho già deciso. Belgio”.
Non si trattava di una vacanza studio. E neanche di un anno all’estero per l’università. Lo sguardo di Pedro era diventato improvvisamente fisso. “Germania o Belgio per fare cosa?”, la domanda era retorica, ma lui l’aveva fatta comunque.
Una studentessa milanese che aveva tutto dalla vita decideva di andare a vivere in Belgio a cinque esami dalla laurea. Pedro non riusciva più a parlare, a fare altre domande. Era fermo immobile in un angolo del letto. Con il suo spinello e lo sguardo rivolto verso il soffitto.
“Puoi venire a trovarmi, puoi vivere lì anche tu se vuoi, cosa te lo impedisce?”. Un “ti amo” alla fine della frase avrebbe potuto sancire il proseguimento del legame, ma la ragazza non si era sentita di dirlo. Anche il non detto, per Pedro, costituiva un dettaglio importante.
Pedro amava Giulia, forse perché l’aveva conosciuta nel suo periodo fortunato. Era in cerca della fotografia giusta da utilizzare per la tesi. Era salito sul ponte a lui tanto caro, e Giulia era già lì, che percorreva la strada nella direzione opposta. Aveva i capelli rossi all’epoca, e due libri sottobraccio. Una maglietta sintetica aderente, nera, ed un maglioncino rosso sulle spalle. Una gonna né lunga né corta, calze a righe rosse e nere, anfibi da punk. Esistevano due versioni del video musicale che tanto ispirava Pedro. Nella versione più famosa, trasmessa spesso sui canali musicali, la protagonista era una Giulia bionda. Nella seconda versione, Giulia era mora. Pedro aveva davanti a sé una terza Giulia, rossa, che camminava affannata con la bocca semiaperta ed un piercing sul labbro. Una terza Giulia, rossa, non poteva essere un caso: bisognava scattarle la fatidica fotografia, era un segno del destino. Da quella foto era nato tutto il resto.
Pedro non si sarebbe fatto problemi a stare con Giulia tutta la vita. Due bimbi e due pastori tedeschi, e qualche giro in montagna durante la bella stagione per far prendere un po’ di aria buona a tutta la famiglia. Un bicchiere di buon vino a duemila metri, versandone qualche goccia per terra per ringraziare la Pacha Mama, come si usava nella sua terra d’origine, e poi tutti a casa in macchina con l’autoradio a tutto volume, perché i bambini dovevano abituarsi alla buona musica già da piccoli. Il passato lo si cancellava con un po’ di fumo, la ricetta per la felicità futura era semplice, ed anche il presente non era male, fino a quella frase sul Belgio.

Pedro ora lavora in uno studio fotografico a Villa Cortese, a due chilometri da Dairago. Sono passati sette anni e qualche mese da quel pomeriggio di fine estate.
“Pedro, stammi a sentire. Qui non abbiamo tempo di lavorare per bene, abbiamo sei matrimoni tra oggi e domani. E questi quattro sfigati non diventeranno mai famosi: guarda com’è brutto il cantante. Prendi quella cazzo di videocamera, e visto che ti piace il neorealismo italiano ora ti do da fare una ripresa molto realista, mentre io faccio un filmato di questi quattro stronzi che suonano”.
“Ma come facciamo a girare un videoclip con questa luce qui? Bisogna aspettare almeno un paio d’ore. Il tecnico video sono io, ascoltami per una volta, che tu avrai pure sessant’anni ma io con la cinepresa in mano ci sono nato”.
“L’unica cosa che avevi in mano quando sei nato era il tuo cazzo. Le tue uniche esperienze sono le pippe. Sei peggio di questi quattro sfigati che cantano e suonano. Fai la tua cazzo di ripresa neorealista, che poi modifichiamo tutto in postproduzione”.
“Che cacchio ne sa questo qui di postproduzione?”, si domandava Pedro, incuriosito.
“I due attori più o meno sanno già cosa fare. Ora si inseguono per la piazza e fanno un po’ di cose loro, tu mettiti in coda con la videocamera e non perderli mai di vista. Mai”.
Le riprese in movimento con una videocamera portatile non erano facili da eseguire ma andavano abbastanza d’accordo con l’estetica di Pedro: bastava fissarsi su un particolare. La videocamera seguiva gli attori in una specie di lotta con i cuscini, lungo i portici del centro. Era dicembre, faceva freddo ma c’era una luce fastidiosissima che abbagliava la piazza. Sotto i portici, invece, il buio più completo. Neanche un lampione acceso. Bel video di merda che avrebbe realizzato, e poverini i quattro sfigati, che poi in realtà non erano neanche così male.
Ma ora c’era da correre per non perdere di vista i due attori. Uno slalom tra le colonne dei portici fino ad arrivare ad uno spazio aperto, con una giostra per bambini. Un giro intorno alla giostra, sempre con la videocamera in mano. Un leggero senso di nausea. Frustrazione. Rabbia. Ad un certo punto un ginocchio urta qualcosa. Si sente un bimbo urlare, piangere. Intorno è pieno di bambini, chissà qual è che ha urlato. Pedro non ha tempo di controllare, non può perdere di vista neanche per un secondo i due attori che intanto continuano ad inseguirsi.
Sulla sinistra della piazzetta ci sono delle animatrici che regalano palloncini. La piazza è piena di bambini, e sembrano tutti felici. Chissà chi è quello che si è fatto male. La videocamera nel frattempo riprende tutto. Tutto, tranne gli attori del video, perché l’attenzione di Pedro è ormai altrove. Pedro incrocia lo sguardo di una delle animatrici. Una donna di circa trent’anni. Si guardano dritti negli occhi e con una singola occhiata la donna riesce a punirlo per aver fatto cadere a terra un bambino. Le labbra sono serrate e contratte, i muscoli del viso sono tesi, le sopracciglia sono corrugate. Se non dovesse curare i bambini, andrebbe da Pedro e lo colpirebbe con violenza.
“Non è lei, non può essere. Non è mai venuta a casa mia in vita sua, figuriamoci se viene a Busto Arsizio”. La videocamera torna prontamente sugli attori, che in assenza di direttive vanno avanti a tirarsi i cuscini e sembrano divertirsi un mondo. Pedro li segue fino a tornare dove c’è il gruppo che fa finta di suonare.
“Segaiolo, spegni la videocamera e salta in macchina. Abbiamo fatto abbastanza riprese. Ora c’è da andare al matrimonio. Muoviti”. Seduto sul sedile del passeggero, Pedro manda avanti e indietro la registrazione. Ci sono solo un paio di fotogrammi che gli interessano, e hanno una definizione pessima, ma lui li guarda in continuazione, lungo tutto il viaggio in macchina. Ogni volta che i due fotogrammi scorrono, c’è una fitta al cuore.
Per la prima volta nella sua vita, Pedro piange, singhiozza, gli tremano le mani, le extrasistole gli tolgono il fiato, vorrebbe urlare. E accanto a lui c’è un fotografo frustrato che gli parla di postproduzione.

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